«La parola di Dio è come il fuoco,
come un martello che spacca la roccia».
Perciò quando gli disse: «Parti dal tuo paese,
va’ nella terra che io ti mostrerò»,
come poteva Abramo non partire,
come poteva, lui, disobbedire?
Abramo parte, e non sa per dove.
Lontano, via, fuori di lì: altrove.
Abramo crede. Ascolta.
Si fida e affida a una voce, segue
una mano forte che non vede.
Prende la moglie, i servi,
gli armenti e suo nipote: ed è già vecchio,
è già nella stagione del cuore in cui si spera
di non dire più addio a niente e a nessuno.
Invece porge orecchio alla promessa del Signore:
«Farò di te una grande gente, più numerosa
delle stelle in cielo, più folta
della polvere del suolo».
Non era solo, Abramo: la sua sposa
era Sara, principessa, che ognuno tra i Caldei
riconosceva bella più di qualsiasi donna,
chiara negli occhi e nel sorriso,
fedele anche nei sogni. Ma infeconda,
sterile come un sasso.
All’improvviso il Signore cancellò
il suo smacco, annunciandole un figlio.
Fu uno spasso per i due centenari:
lei si guardava le mammelle vuote,
lui si toccava gli attributi vizzi.
Ma c’è forse qualcosa di difficile per Dio?
E Sara partorì, un maschio che fu chiamato Isacco.
Abramo! Abramo patriarca!
Abramo, padre legittimo a cent’anni!
Non aveva mai chiesto, non si era lamentato:
rassegnato a una progenie serva,
sicuro ormai che non avrebbe visto
lo sguardo di sua moglie in un bambino.
Ma ora: Isacco, riso di Dio,
suo figlio, figlio di Sara principessa,
promessa di una stirpe futura,
Isacco era arrivato, a cui appoggiarsi:
il suo bastone da vegliardo…
Dovettero passare tempi di guerra e di bottino,
stermini e migrazioni, incendi e carestie,
maledizioni: Abramo ubbidì sempre
al suo Signore, anche contro il suo cuore.
Però un giorno, o una sera, o un pomeriggio,
la voce lo chiamò per nome: «Abramo!»,
come venisse da lontano, da oltre il cielo,
o dal fondo di un temibile pensiero.
E lui si guardò intorno,
rispose: «Eccomi!», se pure qualche cosa
gli diceva di sparire, di nascondersi.
«Abramo, prendi tuo figlio, l’unico, l’amato:
offrilo a me, tuo Dio, in sacrificio, dove ti mostrerò».
E lui, impietrito, non disse una parola.
Passò la notte ad occhi spalancati,
vicino a Sara che dormiva ignara,
si alzò a guardare Isacco sprofondato
nel suo sonno bambino: gli accarezzò
i capelli. Era vigliacco dire no al Signore,
o era coraggioso? Poteva rifiutarsi, scappare,
fingersi pazzo… Di buon mattino,
svegliò il ragazzo e i due servi, spezzò
la legna che caricò sull’asino.
Senza fiatare, salutò Sara, trepida e stordita.
Fu un viaggio di tre giorni, silenzioso.
Solo il figlio parlava, contento di ogni cosa
che vedeva: il profilo dei monti, l’acqua
del fiume, il ciglio erboso della strada.
Accanto a un filo, alle piante, a una rosa:
giovane innamorato della vita.
Abramo lo guardava, disperato,
implorando il Signore: «Perché
me lo hai donato, allora? Come puoi
ora chiedermi l’incredibile, l’assurdo?».
Giunti che furono al luogo indicato,
il padre e il figlio salirono da soli:
il suo dolore avanti, a passi allegri,
l’addolorato dietro, lentamente.
Voleva dirgli: «Isacco mio,
il nostro Dio ci chiede un sacrificio…».
Ma lui già disponeva la legna sull’altare;
curioso, ilare, si affaccendava per appiccare
il fuoco, cercava intorno
di trovare un capretto, un agnello…
Abramo benedetto balbettava «Jahvè!»,
e intanto lo legava stretto, poi brandiva
il coltello.
Non guardare, bambino, tuo padre impazzito,
che vorrebbe fare a sé ciò che è stato
ordinato dal suo unico Dio, l’Infinito.
Ma ecco: «Abramo, Abramo!»
Dall’alto l’olocausto fu fermato,
salvando Abramo, Isacco, Dio, la fede,
e quello che nel cuore non si vede.
«Chi ha plasmato l’orecchio, forse non sente?
Chi ha plasmato l’occhio, forse non guarda?».
Abramo sapeva che il Signore non tarda:
nessuno ha mai sofferto per niente.
In Il silenzio e le voci, Nomos, Busto Arsizio 2011