ANTONELLA ANEDDA, SALVA CON NOME – MONDADORI, MILANO 2012

L’ultimo libro di Antonella Anedda si compone di versi, brevi prose e fotografie. Foto in bianco e nero: ritratti antichi di familiari, cornici vuote, abitazioni diroccate, scale di legno che si intersecano minacciose, rubinetti in vasche da bagno (acqua pulita che si versa in acqua scura, sporca). Immagini allusive e inquietanti, come quelle che riproducono le forbicine da unghie su un lenzuolo, o l’ago infilzato in una pence. Stranamente, l’idea del taglio, della cesura fredda, del troncamento reciso, quindi della separazione netta e crudele, ripercorre costante tutta la raccolta: spada, acciaio, ferro, falce, ferita, forchetta, lamiera, carta vetrata, spina, osso affilato, cesoie, sbarre, coltelli, sono gli oggetti più presenti e assedianti, nella loro asettica nudità, l’immaginario di questa poesia. Quasi uno strumento di autocontrollo, di vivisezione e analitica severità : «Servono aghi e forbici. Serve precisione», «la precisione con cui la morte / ci tagliava via uno dall’altro». E a questo bisogno (o timore) di disciplinata spietatezza fa da contraltare un’atmosfera pervasiva di vapori sospesi, di sogni fluttuanti, di nuvole e soffi d’aria. Il fenomeno meteorologico più descritto è infatti il vento, il colore più diffuso il bianco (negli esterni e negli interni impersonali: bagni, cucine, tavoli. «Eccoli nel freddo. La pelle nuda sfiora il lavabo. / Tutto è bianco. La felce sulla vasca trema nel vapore». «Impara la solitudine tra le mattonelle del bagno. / Il silenzio è uno smalto»). Appunto il silenzio, proprio come impossibilità di comunicare, minaccia di morte, sacrificio, aleggia imperturbato ma anche salvifico tra questi versi: «Tacciono. Pensano cose distanti. / Anche noi ammutoliamo.» E fa paura, spaventa, allontana da tutte le presenze avvertite come pericolo: «quanti diversi tipi di tremore siamo costretti a imparare», «la mia paura è una piccola macchia… / il male non si espande ma si addensa», «Siamo mortali, mortalmente spaventati / tremiamo come volpi e cani».
Il lettore scopre di poesia in poesia continui rimandi di senso, richiami di parvenze appartenenti alla memoria, a un passato ingombrante e ancora incombente, a incubi ricorrenti di morte, violenza e vendette (persino gli animali citati sono inquietanti: «volpi, linci e lupi»). Ma è come se l’autrice pretendesse dalla sua scrittura una riscoperta di significato a cui aggrapparsi, a cui chiedere una verità definitiva. Allora torna al paesaggio e alla lingua di una sua Sardegna ancestrale, torna a ricordi mai archiviati di un’infanzia turbata (malattie, abitazioni, parentele), nell’accettazione di un’eredità di sentimenti ricattanti, da cui si vorrebbe liberare e in cui tuttavia riconoscersi: «Fai un solo miracolo: che smettano le vite di addensarsi / su questa striscia che chiamo la mia vita. / Lasciami libera da me – dunque da loro – di cui conosco i nomi / e le separazioni».
Proprio i nomi rivelano la loro ambigua, duplice vocazione nell’inchiodare le esistenze ai propri destini, nella volontà sopraffattrice delle loro definizioni: «Ricevere un nome è la prima prova che siamo in balia degli altri». Quindi spetta al poeta questo compito difficile, di ritrovarsi nella sua storia e nella storia di tutti (e il rapporto per eccellenza è ovviamente quello, temuto e riflesso, con la madre), di recuperarne la memoria, e di salvarla in un racconto che la perpetui per sempre.
E’ l’unica eternità che Antonella Anedda concede a se stessa; tramontato infatti ogni dio («Ormai certi che l’anima è mortale / e il corpo solo astuto / e la coscienza un’invenzione»), la sola salvezza può venire dal ricordo, da una tenerezza, da una complice e inaspettata tregua nel male: «Creature senza creatore in cammino da ere / fino al gesto in cui una, toccando l’altra, la consola».
Così qualsiasi prosa, nella vita concreta e nella letteratura, può e deve venire addolcita dalla poesia: ne è esemplificativo il fatto che in un breve, prezioso testo narrativo del volume, le frasi più incisive siano raccontate in endecasillabi («Lascio che si accumuli la polvere», «Mi oppongo a questa inutile fatica»). Quindi proprio alla poesia va demandato il dovere di aiutare la vita a sopportarsi, a consolarsi, a illuminarsi, dandole un nome che la salvi: «Benvenute luci. / Scrostate piano la notte . / Costruite il mattino. / Ecco acqua distenditi».

 

«Atelier» n.66,  giugno 2012