L’ULTIMO VOLO – RICORDO DI SIRO ANGELI

La Biblioteca e l’Amministrazione Comunale di Cavazzo Carnico, insieme ad alcuni illustri studiosi e a preziosi e competenti volontari, da qualche anno stanno promuovendo il recupero dell’opera letteraria di Siro Angeli, nato a Cesclans nel 1913 e morto a Tolmezzo nel 1991. Molto volentieri, in qualità di seconda moglie di Siro, e in accordo con le nostre figlie Daria e Silvia, abbiamo donato al Comune la sua casa natale, i libri conservati nel suo appartamento di Roma, e parte dell’epistolario in nostro possesso. Un ricco fondo di documenti era già stato affidato alle cure attente dell’Università di Trieste alcuni anni fa. Ma qui mi preme offrire una testimonianza personale, un ricordo affettivo dell’uomo e del poeta, quale io l’ho conosciuto a partire dagli anni 70, e a cui sono stata vicina per un ventennio. Già dalle primissime letture della scuola elementare avevo subito il fascino della parola poetica, in cui avvertivo istintivamente una concentrazione di senso e una seduzione musicale che la prosa non mi regalava. Se quindi da bambina erano i versi di Novaro e di Gozzano («Tita singhiozza forte in mezzo all’orto», «Consòlati Maria del tuo pellegrinare»), e più tardi quelli di Ungaretti e di Saba a commuovermi in maniera particolare, al ginnasio e al liceo le mie letture si rivolsero appassionatamente e autonomamente (senza, cioè, venire orientate e dirette da qualche insegnante o guida adulta) verso qualsiasi produzione poetica riuscissi ad avvicinare. Ricordo ancora i primi due libri di poesie acquistati con le mance domenicali: le  Liriche cinesi  e  L’Antologia di Spoon River  della Nuova Universale Einaudi. In seguito, in maniera confusa e entusiastica, lessi Montale e Cardarelli, Pavese e Palazzeschi, Prévert e Tagore, fino ai disorientanti sperimentalismi della neovanguardia. Accompagnavo questi studi con l’ascolto dei cantautori italiani (Endrigo, Tenco, De André, soprattutto) e degli chansonnier francesi, affinando così una sensibilità forse eccessiva per quel miracolo del pensiero e del sentimento che chiamiamo “poesia”. Cominciai anche a buttare giù dei versi – molto banali e zoppicanti, a rileggerli adesso- che custodivo gelosamente in segreto. Fu in prima liceo classico che la professoressa di italiano ci fece acquistare un’antologia: Poesia contemporanea, edizione Le Monnier, curata da Rispoli e Quondam. Lì trovai Siro, a pagina 521. I versi riportati erano tratti da quello che rimane forse il suo libro più intenso e ispirato,  L’ultima libertà, dedicato alla sua amatissima prima moglie Liliana, morta molto giovane, nel 53. Ricordo ancora a memoria alcune di quelle poesie: Come si fa di brace,  Nel deserto del letto, Volevi essere mia, e il turbamento che mi provocava ripeterle tra me e me. Non so quale istinto o segno del destino mi convinse a prendere la penna, il 24 gennaio 1970 – avevo sedici anni – e a scrivergli una lettera, che indirizzai alla Rai, dove allora lui ricopriva la carica di vicedirettore del terzo programma radiofonico. Voglio riportarla per intero, così timida e impudente come mi appare adesso, insieme alla sua risposta pacata e commossa.

Caro Signor Angeli, sono una studentessa liceale di Verona; le scrivo dopo aver letto alcune sue poesie su un’antologia di poeti contemporanei. Devo confessarle che non sapevo neppure che lei esistesse: a scuola non si curano certo di farci apprezzare la poesia moderna; tuttavia le sue poesie mi sono piaciute. Molto. Non mi interessa sapere se la sua poesia è contrapposta a ogni inutile sperimentalismo, oppure se risalta a prima vista l’elaborazione e la rinnovazione degli endecasillabi e dei settenari (come ha scritto Ravegnani): io bado ai fatti e le sue liriche sono delicate e sincere. Per questo mi sono piaciute. Le ho scritto per chiederle se può mandarmi un suo volume: non credo infatti che i suoi libri siano stampati in edizione economica, e io non ho mai abbastanza soldi per permettermi un’edizione di “lusso”. Se un giorno riuscirò a scrivere poesie belle come le sue, anch’io le manderò un volume gratis. Volevo dirle inoltre che mi dispiace molto che la sua “Lilith, Eva, Maria” sia morta. Affettuosi saluti. Alida Airaghi

Cara Alida, scusa se ti do del tu: penso che la mia età, e soprattutto lo slancio spontaneo che ti ha sollecitata a scrivermi, mi consentano di farlo. Dirti che la tua lettera mi ha recato piacere è poco. Accorgersi che le nostre parole hanno lasciato una traccia nell’animo di qualcuno è assai consolante: non (almeno nel mio caso) perché ciò soddisfa la nostra vanità, ma perché l’impulso a scrivere nasce proprio dal bisogno di comunicare, di confidarsi, di stabilire un rapporto di comprensione e di intesa con gli altri, insito in ogni essere umano. Adesso io per te esisto, e tu esisti per me. Se da me ti è venuto qualcosa, senza che io l’abbia espressamente voluto (e questo mi sembra anche più bello) tu mi hai dato altrettanto scrivendomi, e forse di più. Ti mando volentieri il mio ultimo libro di versi. Confido che non ti deluda; e attendo che un giorno tu possa ricambiarmi con un libro che rechi la tua firma, e sia migliore del mio. Io l’ho scritto perché non potevo farne a meno, per disperazione e per vincere la disperazione. La vita mi aveva concesso, con mia moglie, moltissimo; e, forse perché è stabilito che il bene si debba pagare più del male, poi me l’ha tolto. Io ho cercato di recuperare questo grande dono nelle parole, non potendolo recuperare nella realtà. Ricambio i tuoi affettuosi saluti e ti auguro che si avveri quello che desideri, per i tuoi studi e per la tua vita. Siro Angeli

La nostra corrispondenza si protrasse fino al 1973, quando scesi a Roma con alcune compagne di studi per incontrarlo. E continuò, pressoché quotidiana da parte sua, anche nei primi anni della nostra relazione, fino al trasferimento a Zurigo, alla nostra convivenza e poi al matrimonio. Un esilio dorato, il nostro, grazie soprattutto alla nascita delle nostre bambine, all’amicizia fedele di pochi amici, alla sicurezza economica che ci garantiva il mio insegnamento per il Ministero degli Esteri. Ma sempre esilio, a cui ci aveva convinto l’ostilità – dapprima feroce, poi attutita, poi di nuovo manifestamente esibita, dopo la scomparsa di lui – delle nostre famiglie, a Roma e a Verona, scandalizzate dall’abisso di anni che ci divideva. La morte di Siro, inattesa e imprevedibile, non è comunque riuscita ad offuscare in me il ricordo riconoscente del suo severo insegnamento, morale e letterario, e la volontà di rimanervi fedele. In quel lontano agosto del 91, Siro ci aveva preceduto a Cesclans, dove eravamo soliti passare due settimane ogni anno, mentre io e le bambine eravamo rimaste a Verona, trattenute lì dalla leucemia che aveva colpito mia madre, e che l’avrebbe uccisa quasi contemporaneamente a Siro. Ma io l’avevo poi raggiunto per accompagnarlo all’ospedale a un controllo, suggeritogli dal medico a causa di quella che gli era stata diagnosticata come una tracheite. Avevamo partecipato insieme alla Messa di Ferragosto, e ancora adesso mi rimprovero di non aver intuito la gravità del suo male, anche al di là delle reticenze dei dottori e dei parenti. Rammento la sua ultima frase, prima del commiato la sera del sabato in cui fu colpito da un ictus: «Non mi sento ancora del tutto a posto. Tu però vai, vai a dormire, ci vediamo domani». Il rientro a Zurigo con le sole bambine, il dover dire loro che non avrebbero più rivisto il papà adorato, il silenzio terribile e prolungato di tutti, la cattiveria covata e mai da me prima sospettata, ed esplosa in seguito con virulenza, con perfidia: tutto questo non si può dimenticare. Ma dopo tanto tempo risulta attutito, quasi mitigato con clemenza dal bene che è rimasto, dai ricordi belli. Anche dalle raccomandazioni “letterarie” con cui seguiva quello che io scrivevo, esortandomi e correggendomi. Per cui se io leggo una mia breve, lieve composizione tratta dal libro  Il silenzio e le voci («L’elegante betulla è spoglia. / Solo una foglia, esitante, resiste. / Un poco trema, appesa ad un nulla; / e aspetta triste il suo ultimo volo»), risento la sua voce grave e severa: «Attenzione alla metrica! E le rime, le rime sono importanti: non rimare aggettivo con aggettivo, verbo con verbo, nome con nome…  Mai cercare la via più facile, affidarsi troppo all’orecchio!». E mi accorgo di quanto ho ereditato dal suo insegnamento, anche a livello inconscio, se paragono i miei versi a quelli suoi di cinquant’anni fa, così profondi filosoficamente, echeggianti il suo ammirato Bergson: «Impara dalla foglia di novembre / che vedi sciogliersi dalla spoglia pianta / nella precaria luce in punta di piedi; / dalla foglia che sa prima d’esser morta, / persuadendosi a un lieve gioco / col filo d’aria che alla terra la porta, /  fare di ciò che deve l’ultima libertà».

Così, rileggendo questi suoi splendidi versi, mi viene da pensare che Siro, nel suo ultimo volo, ha fatto come la foglia novembrina che scendendo verso terra gioca con l’aria, libera nonostante la necessità: anche Siro ha scelto di finire i suoi giorni nella sua Carnia amata, di riposare per sempre al suo paese, come tante volte mi aveva ripetuto di voler fare. E come giustamente ricorda la poesia incisa nella lapide sulla sua casa: «’I si dopo tanc’ ans / tornât al gnò paîs…».

 

© Riproduzione riservata   «L’Immaginazione» n. 269, maggio 2012