RICORDANDO UGO BETTI

Per nostra fortuna, c’è stato chi ha avuto l’intelligente idea di riprodurre su YouTube alcune rappresentazioni teatrali (ormai pressoché introvabili nelle versioni a stampa) di Ugo Betti. Possiamo così fruire non solo di magistrali interpretazioni di attori del calibro di Buazzelli, Randone, Mauri, Salerno, Gassman, ma anche apprezzare testi di elevato spessore etico, e di intenso impegno civile. Nato a Camerino nel 1892, Ugo Betti si trasferì con la famiglia a Parma a nove anni, in seguito alla nomina del padre a direttore dell’ospedale municipale di quella città. Qui si laureò in legge, iniziando contemporaneamente a occuparsi di letteratura. La prima guerra mondiale lo vide arruolarsi come “volontario ciclista”, e in seguito come ufficiale di artiglieria. Venne fatto prigioniero dopo Caporetto e internato a Rastatt, insieme a Carlo Emilio Gadda e a Bonaventura Tecchi, con cui strinse un importante sodalizio affettivo e intellettuale. Tornato in Italia, intraprese la carriera di magistrato a Parma, mentre la passione per il calcio lo portò a giocare nella squadra cittadina, di cui divenne poi dirigente. Dopo il matrimonio, si trasferì a Roma ricoprendo il ruolo di giudice della Corte d’Appello, quindi di archivista al Palazzo di Giustizia e infine di consulente legale per la Siae. Nel 1945 fu cofondatore, insieme a Diego Fabbri, Sem Benelli e Massimo Bontempelli, del Sindacato Nazionale Autori Drammatici (SNAD), impegnandosi nella difesa dei diritti degli scrittori teatrali. Morì per un tumore a 61 anni, nel 1953.

Si era affermato già dalla giovinezza come poeta (Il re pensieroso, Canzonette La morte, Uomodonna), e soprattutto come drammaturgo, tradotto e rappresentato con successo in tutto il mondo: La padrona (1926), La casa sull’acqua (1928) e L’isola meravigliosa (1929) furono tra le sue prime opere di rilievo, ma i drammi che lo resero famoso furono principalmente Frana allo scalo nord (1932), Corruzione al palazzo di giustizia (1944), e Delitto all’isola delle capre (1948). I suoi lavori sono pervasi dalla pessimistica convinzione dell’impossibilità di vincere il male attraverso il perseguimento del bene, ottenendo giustizia durante la vita terrena, e dalla speranza di un riscatto e di un compenso all’infelicità dopo la morte. La sua produzione è spesso stata sottovalutata in Italia, mentre all’estero (soprattutto in Inghilterra) ha trovato accoglienza entusiastica sia tra il pubblico sia da parte della critica, e viene ancora oggi studiata e discussa a livello accademico. Negli anni giovanili lo stile intimista di Betti lo aveva reso inadatto al teatro popolare a cui aspirava il fascismo e successivamente, dopo la liberazione, il suo pensiero e la sua estetica si scontrarono sia con la cultura filo-marxista, sia con il cattolicesimo più retrivo. “Quasi un dimenticato”, lo definì lo scrittore friulano Carlo Sgorlon nel 1984, dopo che il trentennale della sua morte era stato colpevolmente trascurato dalla sua città natale e da tutto il mondo letterario nazionale. E in effetti, oggi Ugo Betti non viene più letto né rappresentato, nemmeno nei drammi giudiziari che meriterebbero invece l’interesse dovuto a questioni vitali e ancora attualissime nel nostro paese. La produzione in versi di Ugo Betti risulta piuttosto datata, e poco accattivante per il lettore contemporaneo, situata com’è tra il fiabesco e il didascalico, risentendo di influssi crepuscolari nello stile, di una ridondanza di sentimentalismo e retorica nei contenuti: le poesie esplorano il paesaggio in toni idilliaci, gli affetti familiari e il mondo del lavoro con un manierismo che può risultare stucchevole, insistito inoltre in una resa musicale che richiama le filastrocche infantili e gli stornelli folkloristici. Tutt’altra corposità hanno i testi teatrali, a partire dal più famoso Corruzione al Palazzo di Giustizia (1944), da cui fu tratto uno sceneggiato Rai nel 1966 e un film con Franco Nero nel 1975. “Il Palazzo poi è la miniera, è il pozzo, è il nido, del malcontento, dei sussurri. Comincia uno a spargere calunnie, l’altro seguita, il giorno dopo sono dieci, venti e poi… È come una cancrena che si allarga”, dice uno dei giudici protagonisti all’inizio del dramma. La scoperta del cadavere di un potente faccendiere all’interno del Palazzo di Giustizia di una innominata “città straniera” scatena una guerra di sospetti e accuse, insinuazioni e colpevoli silenzi che coprono enormi interessi economici, in un’atmosfera che si fa via via nel corso dello spettacolo sempre più angosciosa e allucinata. Alla base del diabolico gioco al massacro sembra esserci la successione al ruolo di Presidente, occupato dal debole e stanco giudice Vanan, stretto tra le ipocrite ambizioni dei colleghi e la consapevolezza di non aver sempre agito con specchiata correttezza. All’interno del Palazzo si consumano tradimenti e suicidi, viscidi asservimenti al potere e al denaro, complicità e ribellioni. Il rapporto esistente tra legalità e arbitrio, tra diritto e umanità, che oscilla tra la descrizione cronachistica e la riflessione metafisica, domina anche in un altro famoso dramma di Betti, risalente addirittura al 1932, al primo decennio fascista, con le sue censure e le persecuzioni, i fanatismi ideologici e l’idealizzazione di un collettivismo rivoluzionario, in realtà intriso di oscurantismo e repressione. In Frana allo Scalo Nord l’autore si rifà ad un’esperienza autobiografica, quando ‒ agli albori della sua professione di magistrato ‒, si era occupato in un saggio giuridico delle responsabilità individuali e collettive negli incidenti ferroviari. Le sequenze teatrali dell’opera, giocate tra interni ed esterni, silenzi improvvisi e urla di dolore e protesta, luce accecante e buio, ricalcano le fasi di un’istruttoria giudiziaria, con interrogatori di testimoni, perizie tecniche, sopralluoghi nei cantieri e dibattiti nelle aule del tribunale: colpe e omissioni, responsabilità personali e politiche, assurgono a metafora dell’intera esistenza umana, nella concatenazione di eventi più o meno prevedibili ma comunque tragici. Nel testo si intrecciano considerazioni sociologiche e analisi psicologica, con un’attenzione molto moderna ai conflitti tra proletariato e classe dominante, e una premonitrice sensibilità verso le istanze ecologiche. La condanna etica del profitto economico privo di scrupoli si esplicita nella coscienza tormentata del giudice Parsc, costretto a emettere un verdetto che alla fine risulterà di assoluzione: la ricerca di colpe individuali nel corso delle indagini e del processo si trasforma in una severa analisi del sistema capitalistico, ciecamente finalizzato al guadagno, e in un sentimento di pietà e comprensione per il destino di tutti gli esseri umani, ugualmente vittime di ingranaggi crudeli di sfruttamento e morte, nella lotta eterna e ineliminabile tra bene e male.

 

© Riproduzione riservata                            «Il Pickwick», 28 agosto 2018