NICOLETTA BIDOIA, COME I CORALLI – LA VITA FELICE, MILANO 2014

Le tre sezioni che compongono il libro di Nicoletta Bidoia ruotano tutte intorno al tema della felicità della narrazione, del racconto in versi, in un linguaggio assolutamente privo di qualsiasi artificiosità, che sembra avere come fine ultimo proprio quello della comunicazione, del rapporto paritario e reciproco con il lettore. «Questo è quello che ho da dirti», sembra suggerire Nicoletta, «e te lo dico in versi»: senza presunzione di innovazione linguistica, di originalità teorica, di abissali profondità emotive. «Pallidi, diremo: Tutto qui? Poi / -misterioso tacere di un impero-  / nell’oblio rimane solo il bianco duro/ di un segreto».

Così si conclude la poesia che dà il titolo al volume, iniziata con queste icastiche parole: «Il corallo è come noi. Pare uno, / ma sono tanti i tremori che lo fanno». Dunque la prima sezione, Novecento, è tutta all’insegna di una recuperata saga familiare così come si è svolta nei decenni di un secolo: nella ricostruzione di una «filigrana di destini», dell’ «albero della vita», di una «dinastia», di «radici» e della «diramazione di un nome». La poetessa narra dei suoi parenti, del nonno ultranovantenne prigioniero nell’ultima guerra, nella «bufera della storia», di parenti suicidi («Quando scese in garage assicurò / il suo saluto al nodo»), oppositori politici, figli illegittimi, rinomati artigiani, vittime di amori clandestini, appassionati di lirica («loggioni come il pane quotidiano, / grande beatitudine, strade e sdegno»). La seconda parte del libro modula le diverse cadenze del silenzio: quello freddo dei morti, quello pudico degli innamorati, o mistico nelle chiese, o commosso da troppa felicità, o colpevole e mortale: «Tradisci così, silenzio, / fragile nascondiglio». La terza sezione, Parlami, è la più eterogenea, con un suo pressante invito al confronto: aperta alla meditazione sulla natura, sull’ingiustizia sociale e politica, sull’amicizia e sull’amore, quasi chiedendo conforto a chi legge in un incalzare di interrogativi che rivelano la propria fragilità, e la fragilità stessa della poesia, insostituibile scandaglio dell’anima: «Ma tu credi davvero a questo temporale nell’afa? / Che rinfreschi la mente arrossata dal pianto? / Che lavi via subito le ore insonni a girarsi / nel rovello di un letto? // Non so, domando».

 

«Leggere Donna» n.163, luglio 2014