DONATELLA BISUTTI, VOGLIO AVERE GLI OCCHI AZZURRI – BOMPIANI, MILANO

Strana bambina, questa Simona di cui ci parla la poetessa Donatella Bisutti nel suo primo e recente romanzo, Voglio avere gli occhi azzurri. Una bambina adulta, cresciuta troppo in fretta in un mondo di adulti, che da loro ha assunto una malinconica consapevolezza, una scontentezza che non è infelicità, ma uno sguardo serio (mai complice, divertito o semplicemente capace di intenerirsi) su ciò che la circonda. Simona è figlia unica, abita in una città di molti palazzi e giardini urbani, frequenta poco gli altri e molto le sue fantasie: ha un rapporto pressoché inesistente con il padre, e piuttosto contorto con la madre. E’ la protagonista in terza persona, nel tempo passato remoto delle favole, di un denso volume di storie: non veri e propri racconti, ma pagine che fissano con minuzioso nitore momenti diversi di vita, di quotidianità esaminata negli aspetti più banali, nei dettagli che possono sembrare più insignificanti, ed assumono invece le proporzioni di eventi fondamentali. L’occhio che guarda non è un occhio infantile, anche la prosa ha un suo andamento leggibilissimo, articolata com’è in frasi paratattiche, con un corso di continui ritorni a spirale sul già detto: quasi ad imitare appunto il modo di esprimersi dei bambini, ma lontano da ogni leggerezza, da ogni stupore, e invece intriso di amaro disincanto. Simona patisce una curiosa e dolorosa frammentazione dell’io: è Simona, ma potrebbe e forse vorrebbe essere Francesca, Laura, Claudia. Ha gli occhi marroni, ma li vorrebbe azzurri come quelli della mamma. I suoi capelli biondi potrebbero essere rossi, ecco anzi che diventano rossi, e la bambina non si riconosce più, non viene più riconosciuta da chi le è vicino; d’altra parte lei stessa si sdoppia, quando si guarda allo specchio, si rifiuta, cancellandosi con una spugna. Quando si disegna, si fa diversa da com’è, e in più copie. Simona non si piace. Non le piace neanche la sua mamma, che vorrebbe diversa, capace di fare le torte e di stirare, magari di darle le botte o qualche bacio (non si toccano mai, mamma e figlia, si osservano attente e sospese, ma senza abbandoni) e non la madre intellettuale che ha, sempre intenta a leggere giornali o a correggere libri. «A lei non piace fare la mamma», è la sua impietosa e crudele condanna. A Simona non piacciono nemmeno le cose che di solito fanno la gioia dei bambini: il Natale, il compleanno, la neve, i giochi sulla spiaggia. Ogni azione viene rallentata e sezionata, ogni slancio naturale disturbato da una riflessione o da un’interrogazione, da una disamina impietosa. Sotto questa specialissima lente d’ingrandimento dell’attenzione maniacale ad ogni movimento o trasformazione, tutto assume i contorni dell’assurdo, si snatura ingigantendosi, sproporzionandosi, fluttuando, tracimando dai confini. L’universo di Simona è in perenne metamorfosi, i suoi giocattoli si animano, il cielo è continuamente percorso da nuvole che si dilatano e si rincorrono. Ogni fenomeno naturale è se stesso ma è anche altro: «Era tutta avvolta dalla neve eppure la neve era fuori e lontana da lei. Le veniva addosso e la toccava, eppure dove cominciava la neve, per esempio sopra il suo cappotto, cominciava il resto che non si poteva raggiungere»; «Le dita della pioggia erano bizzarre. Le gocce cadevano dappertutto e sembrava che l’acqua sciogliesse le cose e ne portasse via un po’ con sé, non si sapeva dove».

Questa bambina scontenta, annoiata, che non si diverte neanche con i suoi amici, sembra proprio assumere su di sé i caratteri dei nostri bambini di città, troppo intelligenti e sensibili, ma già testardi nei loro rifiuti arbitrari: non vuole mangiare, non vuole giocare, si butta per terra, batte i piedi. Se canta, nessuno la deve ascoltare, e se corre, magari in compagnia di un cagnolino, la sua corsa non ha nulla di fisico e ansante, ma diventa subito una corsa mentale, allucinata, in cui tutto prende a correre con lei: «Non c’era niente che fosse simile a quello che era stato un attimo prima, ma tutto saliva, scendeva, si gonfiava e precipitava, era mobile e mutevole. I prati correvano, si inarcavano e si distendevano e il vento si inarcava e si distendeva sopra di loro. Tutto rincorreva qualcosa che era davanti a sé e sfuggiva da qualcosa che lo inseguiva e intanto continuamente si trasformava in qualcosa di diverso».

Questo incessante mutare, trasfigurarsi delle cose in altre, delle persone, ha un suo epilogo atteso e inevitabile nell’ultimo racconto del libro, quando Simona, ormai donna adulta e alla ricerca di risposte, torna nella casa della sua infanzia e, nella camera della madre, si specchia nello specchio di lei. Il volto che le appare riflesso è quello della mamma, freddo e severo, come sempre incapace di sorridere. E’ un invito silenzioso, quello materno, a seguirla lì dove è ora, a raggiungerla: per la prima volta le due donne si scambiano parole e lacrime, per la prima volta si toccano, si baciano. Un vecchio specchio è strumento e oggetto di un sortilegio che ha l’incantata magia del miracolo; la madre morta sorride, la bambina difficile diventata donna perdona, lo specchio si trasforma in acqua che cancella ogni visione e ricordo, restituendo la stanza ai suoi chiari e scuri di sempre, la figlia a una se stessa riconciliata, legando passato e presente in una promessa di riscatto, di vita nuova.

 

«Il Corriere del Ticino», 7 aprile 1997