MARIA GRAZIA CALANDRONE, LA VITA CHIARA – TRANSEUROPA, MASSA 2011

La foto di copertina dell’ultimo libro di Maria Grazia Calandrone, tutta giocata tra il nero e il marrone, in uno sfondo plumbeo che sembra evocare una tromba d’aria o marina, stride volutamente con il titolo della raccolta: La vita chiara, inciso in caratteri bianchi, per una poesia che da subito si offre invece magmatica, densa, scavata, lontana da qualsiasi leggerezza o ironia. Di non facile e immediata decifrazione, anche se non ermetica, vibrante di un’ansia controllata, tesa in un dolore reso esplicito da immagini violente, da ricorrenti motivi di accesa aggressività, di sconvolgente sopraffazione. Il volume è diviso in quattro sezioni dedicate ai quattro elementi empedoclei, e tutti individuati nella loro sovrumana forza distruttiva, impetuosa. Così per l’acqua il simbolo prescelto è ovviamente il mare, vissuto soprattutto come minaccia nei suoi insondabili abissi o sulla superficie popolata da presenze animali e vegetali specificate con una precisa terminologia biologica, chimica, climatologica: «l’albatro cammina / sull’olio plumbeo dell’acqua, le orche deglutiscono boccate / d’acqua e sciami di alici nelle forme / di calamita e anelli scardinati, pulviscolo / di lische». Acqua inquinata e corruttrice, melmosa e corrosiva, spesso rievocata anche nell’impetuosità assassina dei fiumi, cui il subconscio sofferto dell’autrice torna nella rievocazione ossessiva dell’incubo che ha segnato la sua venuta al mondo. Il fuoco, poi, è cenere e vento, distruzione e annientamento in una sezione in cui la natura non è mai sollievo o consolazione («il gelsomino / colma di fango tenebroso / le corolle», «i sassi / trasportati dai vermi / nella bocca»). Anche le variazioni d’amore ricostruite nei dialoghi con il mistico persiano Hafez rappresentano una sorta di schiavitù di rapporti in cui non si sa chi sia padrone o servo, vittima o carnefice: («sono una piccola catasta di membra / che la sua nudità dovrà pur / calpestare»). E’ lo stesso «amore ammalato» che ritroviamo nella splendida e terribile poesia dedicata a Natasha Kampush e al suo rapitore, in cui la pietà per un sentimento divorante e distruttivo rivendica quasi una sua giustificazione agli occhi del mondo civile e perbene che non potrà mai comprendere. Proprio qui riappare un sintagma che, con una variazione significativa («sotto gli occhi di tutti», «sulla bocca di tutti») è spesso presente nella poesia di Maria Grazia Calandrone: a esibire la teatralità compiaciuta e orgogliosa della sua poesia, ma nello stesso tempo a indicare che il mistero di ogni anima e di ogni gesto rimane sempre, esclusivamente, privato e irraggiungibile  («Non sia esposto il segreto che brucia nell’urna del cuore», recita il titolo di un paragrafo del libro).
Il capitolo più corposo del volume è dedicato alla terra, alla concretezza della storia che invade e violenta la vita dei singoli, distorcendone i percorsi esistenziali, distribuendo macerie e lutti: immagini forti che dipingono scenari ancora una volta drammatici, da declamare sulle scene, con un alto senso della denuncia civile. Quindi Guernica, le stragi di Sant’Anna, rastrellamenti, donne sventrate, eccidi, madri che piangono i figli torturati ( e Maria è ovviamente il nome-icona di una maternità violata e offesa, nel sacrificio eterno di ogni crocifissione innocente). Ma ancora l’ossessione della materia e del corpo si concretizza nella narrazione di episodi di cronaca ambientati in un meridione contadino e superstizioso, abitato da pleniluni e sortilegi, uomini imbestialiti ululanti e donne marchiate da una fisicità lontana da qualsiasi possibilità di riscatto.
Non c’è salvezza, non c’è leggenda o mito, non c’è innocenza: è tutto realtà di tenebra e notte, senza alcuna clemenza, incardinata in una natura impietosa e mai confortante, in una storia che divora inesorabile. Lo stile si adegua, ovviamente, ai contenuti, ignorando quasi provocatoriamente qualsiasi collaudata tradizione letteraria: quindi versi lunghi o lunghissimi, alternati a quinari incisivi e asseverativi – con frequentissimi enjambements, spezzature, interruzioni, ripetizioni-, privi di rime o assonanze, indifferenti a ogni rigidità metrica. Una scrittura personalissima che non conosce tregue o cedimenti, imperativa, forte; nemmeno la sezione finale, dedicata all’aria, si addolcisce in una volatile o delicata armonia, ma rimane concretamente realistica anche nel tratteggiare due personaggi simbolo di spiritualità e sensibilità : Teresa d’Avila e Chopin.
L’estasi della prima sembra tutta concentrata nel voler negare il corpo e la tentazione della materia, ma ad essa e alla «bassezza del marmo» ritorna e si riduce implacabilmente («il mio corpo è bersaglio / e colonna di fuoco / è setaccio / e tamburo»); la dolcezza estenuata dei Preludi e dei Notturni del secondo viene oscurata dalla fatica delle esecuzioni, dalla sanie della tubercolosi, da incubi e visioni animalesche e malate.
Forse un ultimo rilievo o curiosità da evidenziare in questa raccolta dai toni baudelaireiani è la presenza, in quasi ogni poesia, della parola “cuore”, mai in senso immateriale, di anima, bensì in quello corposo e realistico di muscolo anatomico, di interiorità pulsante nell’unica realtà concreta del nostro esistere: il corpo. «Mon coeur mis à nu», appunto.

 

«Poesia» n.266, dicembre 2011