DANIELE CAVICCHIA, LA SIGNORA DELL’ACQUA – ED. PASSIGLI, FIRENZE 2011

Presso l’editore Passigli, il poeta abruzzese Daniele Cavicchia ha pubblicato il volume La signora dell’acqua, che comprende il poemetto omonimo, scandito in sei sezioni, e poesie sparse, composte per lo più nell’arco degli ultimi due anni. «Poemetto sapienziale», lo definisce nella sua dotta e partecipe prefazione il filosofo Sergio Givone, dedicato «all’ elemento più inafferrabile: perché l’acqua è fonte, origine, scaturigine». E trasparenza, aggiungerei, frescura, scorrevolezza: memoria di purezza primigenia, nostalgia di sorgente. Se si dovesse attribuirle una divinità, ecco che essa sarebbe al femminile: appunto «una signora dell’acqua».

Ma questa incantata, affabulatoria composizione in versi non è affatto limpida e leggera; invece appare profonda, a tratti misteriosa, allusiva a realtà nascoste e rivelatrice di arcane verità. Si tratta probabilmente di un omaggio all’eterno femminino, inteso come fascino e grazia, fecondità e ispirazione. Il poeta segue le indicazioni di questa musa e maestra alla ricerca di un suo graal di ricompensa e consolazione, di rivelazione e salvezza. E’ un dialogo, evidenziato anche dai diversi caratteri di stampa (il corsivo che indica il sogno, la visionarietà; il tondo, quando il richiamo al reale e alla razionalità si fa più imperioso) tra due figure femminili – una presente, l’altra solo evocata- e diversi protagonisti maschili: il primo, il secondo e il terzo uomo, forieri di un’inquietudine tormentosa, di una colpa non detta, ma paralizzante. E l’uomo che si divide in tre persone, ha «la cicatrice che gli attraversa il volto», è «l’imputato che tutto ha visto», «piange»», «in ginocchio bussa alla porta del tempio», implora risposte. Ma La signora dell’acqua dice e non dice, indica sempre qualcosa d’altro, appare immersa in un paesaggio perennemente mutante: a volte un bosco, a volte un deserto, o un’abitazione spettrale: «La casa era vuota, le sedie bruciacchiate, / le tende ingiallite, i lampadari vestiti dai ragni». Parla come un oracolo, per enigmi o frasi gnomiche: «Ciò che il silenzio nasconde il silenzio rivela», «Quello che sarà è già stato», «Ciò che siamo, probabilmente saremo, / ma ciò che saremo non saprà chi eravamo», e le sue divinazioni sono consegnate ai messaggeri in rotoli, in pergamene, letti alla luce di candele, in un tempo che è sempre attesa, e insieme confonde passato e futuro, lasciando il presente nella sua ombra.

Daniele Cavicchia in questo poemetto dimostra di avere quasi visceralmente assorbito, oltre a una sua personale e inconsolabile disperazione, una conoscenza approfondita di testi sapienziali antichi, dai presocratici alle Sacre Scritture (il paesaggio desertico, con le tende, le acque salate, i piccoli serpenti, il vento rendono addirittura visivamente il ricordo di pagine dell’Esodo), ma anche la mistica islamica e medievale, per arrivare alle fiabe celtiche e a Yeats. Qui, in questo territorio dell’anima, dove non sussiste certezza e forse salvezza, il poeta cerca una riposta minima, un’eco di parola che, come suggerisce Givone, sia «generatrice di senso»: glielo può far intuire questa figura femminile, incarnazione della poesia e della maternità, promessa di ristoro e di sollievo, polla che disseta nella desolazione dell’aridità, verbo che rompe il silenzio. E’ il segno che solo può dare l’ amata, moglie o madre o figlia tragicamente morta nell’adolescenza, a cui il poeta continua a rivolgersi in versi straziati: «Esiste un grido che è solo grido. / Tu sei quel grido», «Non immagino il colore / del temuto altrove / né il nome che ti identifica / né la tua luce, tra tanta luce; / quando verrò sarò una scarnificata / domanda, l’osso di una preghiera»;

Ma il miracolo può esistere: il dolore sa farsi poesia, una figura cara e scomparsa può essere recuperata nelle parole: «Bussa piano per non interrompere il canto, / sulle labbra brucia o galleggia ancora / la memoria del fuoco o delle onde».

 

«incroci on line», 2 marzo 2016