ERRI DE LUCA,  NON ORA, NON QUI – FELTRINELLI, MILANO 1989

Capita sempre più raramente di imbattersi in bei libri, intensi, che graffiano o comunque lasciano una traccia di sé su chi legge: in genere l’industria editoriale ci propina prodotti ben confezionati e ben digeribili, ma altrettanto facilmente eliminabili dalla memoria e dalla biblioteca. Non è questo il caso di Non ora, non qui, opera prima di Erri De Luca, quarantenne nato a Napoli e residente a Roma. A raccontarne la trama sottile si rischia di scivolare nello scontato, e di darne all’eventuale lettore un’interpretazione non accattivante: è infatti la storia di un’infanzia (e quante ne abbiamo lette?), di un difficile rapporto con la madre (ancora!…) e con l’ambiente. Ma è anche un libro in cui la letteratura supera se stessa, usa tutte le sue metafore e le sue abilità più raffinate per negarsi come tale, e ridursi a grido, a verità dolorosa. E’ una confessione e un atto d’accusa, una preghiera d’amore e una condanna.
Il protagonista ormai adulto rilegge la sua storia attraverso alcune fotografie dell’infanzia, ritrovate, ristampate, osservate con nuova spietata acutezza. Si rivede bambino, «più assorto che quieto»», orgoglioso fino alla testardaggine, di una emotività esasperata: si scopre dietro ai genitori e alla sorella, chiudere sempre in ritardo di alcuni passi il gruppo familiare, durante la temuta passeggiata domenicale; oppure ostinato di fronte alla finestra della cucina, mentre oppone un silenzio dignitoso a una punizione immeritata; o ancora mentre ascolta il profluvio di parole che tutti gli rovesciano addosso, a lui, balbuziente, «l’interlocutore preferito, il muto, l’imbuto». Il rapporto preferenziale è quello con la madre, giocato in un’intesa a volte epidermica e ovvia, a volte profonda e crudele. La mamma (mai descritta, se non nella schiena diritta, nei capelli improvvisamente accorciati per parere più vecchia, in una severità che si intuisce eccessiva perfino nei confronti di se stessa) cerca nel figlio una rispondenza addirittura fisica alle sue sofferenze. Ha l’abitudine di raccontare al bambino «le cose brutte del mondo», provocando in lui un’immedesimazione localizzata nella carne. Lui risponde ai desideri inconsci di lei, diviene l’eco delle sue rinunce, il riflesso delle sue mortificazioni, impara ad annullarsi. Non c’è gioia, non c’è abbandono in quest’infanzia, ma un sorvegliarsi attento, un rigoroso trattenersi, sempre.
Non ora, non qui è il ritornello che la madre oppone a ogni minimo scarto dalla regola; «non ho fatto niente, non l’ho fatto apposta» è invece la risposta automatica del figlio, obbligato a scusarsi di vivere. Unici sprazzi di felicità, di naturalezza fisica, sono la presenza di una domestica selvatica e istintiva, e le nuotate in mare con un amico molto amato e tragicamente perso.
Il vicolo, il porto, la scuola arrivano alla sensibilità del protagonista sempre attutiti, a volte stralunati, attraverso uno specchio deformante perché fissato a distanza ravvicinata, quasi abolita. La madre stessa è bloccata in una serie di istantanee per forza di cose poco realistiche, allucinate: e il rapporto tra i due soffre di una vitrea incomunicabilità, evidenziata nella metafora del reiterato incontro attraverso il finestrino del tram.
Una prosa lirica, in cui l’arte narrativa ha poco agio di mostrarsi, raggrumata com’è in nodi di vita incapaci di sciogliersi in finzione formale. Si esce da questa lettura feriti, turbati come sempre davanti allo spettacolo di una sofferenza gratuita; ma più leggeri, con gli occhi più attenti.

 

«L’Arena», 25 gennaio 1990