FERRARIO DENNA, MAL DI LUNA – BOOK, FERRARA 1996

Se esiste una specificità femminile della poesia, se esiste cioè una poesia al femminile, tale è quanto altra mai la poesia di Marisa Ferrario Denna, particolarmente in questo suo ultimo volume di versi, a partire già dal titolo (Mal di luna, Book Editore). “Mal di luna” così come si dice mal di testa, o mal di mare: un male fisico, patito nel corpo e insieme cerebrale, di pensiero, proprio per l’accezione filosofica, la valenza mitica – ed essenzialmente muliebre – che ha il nostro pianeta. Alla fonte e alla foce questi versi sembrano destinati soprattutto a un pubblico di donne, perché in massima parte dalle donne ispirati e ad esse dedicati. Si tratta infatti in gran parte di versi d’occasione, scritti in omaggio ad amiche o parenti, o su committenza per antologie o ancora su richiesta per avvenimenti particolari, non estemporanei ma giustificati da una loro necessità e impellenza. Sotteso e aleggiante su di essi è un concreto sentimento di complicità, di sorellanza, verso l’altra metà del cielo, sia essa incarnata in nomi e facce conosciute (Rosalba: «corre un nastro di seta fra di noi»), o riferito a un vasto e antico mondo femminile, fatto di gesti che hanno la sacralità del rito, la gravità della tradizione («col mestolo alla mano sul balcone / s’affacciano le donne a respirare. / E intanto danno l’acqua a una piantina / o ritirano l’ultimo bucato/ ancora steso lungo la ringhiera»). Le donne, quindi, come argomento principale della raccolta poetica: donne della mitologia o della letteratura antica. Marisa Ferrario Denna mostra tutta la sua profonda e acuta sensibilità nel raccontare «l’amore quieto e rassegnato di Penelope», «il dio che infuria dentro il corpo» di Cassandra, le condanne dei destini di Elena e Didone, gli inganni della parole di Circe, la colpa imperdonabile, ma assetata d’amore, di Giocasta. Sono gli uomini, qui, in queste storie tragiche e grandi, ad apparire comparse insipide e incapaci di assumersi responsabilità, a essere figure accessorie, di passaggio. E infatti “passaggi” è intitolata la sezione dedicata ad alcune figure maschili: il bambino picchiato, il viaggiatore addormentato, il sensuale cameriere spagnolo, il vanesio seduttore insistente, il conferenziere parolaio. L’unico uomo ad avere consistenza e spessore umano è il padre della poetessa, morto e recuperato nella morte, dopo dissidi e incomprensioni che hanno divaricato le loro esistenze: «Ma mi è rimasto dentro un urlo cupo / un gesto di ribelle disatteso, / un conto in sospeso da saldare, / con la memoria e i fantasmi del dolore». Altri versi appartengono poi all’area privata e nostalgica del passato, dell’infanzia, della vita nelle case, nelle strade e paesaggi di provincia, e sono tra i più felici della Ferrario Denna, tra i più spontanei e sorgivi, perché l’autrice sembra avere un suo segno distintivo nella capacità di recuperare dalle nebbie del ricordo un presente concretissimo e d salvezza, cui potersi aggrappare per andare avanti. Ieri che vivifica l’oggi, morte che dà senso alla vita. Le paure, le gioie, i sogni e i miti del passato, privato e collettivo, sono la realtà vera, quella che dà significato al quotidiano, forse al futuro: «L’Ade non è l’esilio/ che ci aspetta/ ma il bosco che ci spaventò – bambini». Oppure: «Non hanno storia quelli come noi, / vissuti dentro l’isola dei sogni, / fuori del tempo, contro il quotidiano, / legati solo a un filo di memoria». Ecco, quindi, l’astoricità di questa poesia, la sua indifferenza all’attualità, il suo nutrirsi di sogno, che ne segnano il pregio e il limite. L’atemporalità della scrittura viene ribadita anche formalmente, dalle scelte stilistiche dell’autrice, tutte nel solco aureo della nostra migliore tradizione, da Pascoli a Gozzano, da Montale e Giudici, poeti molto amati e recuperabili, come sostrato di lettura e insegnamento, nell’opera di Marisa Ferrario Denna. La quale si affida a una scelta metrica facile e difficile, quella di un cantabilissimo endecasillabo, a volte inframezzato da settenari, lontana comunque dalla prosaicità narrativa e da ogni sperimentazione. Ma la cifra peculiare di questa poesia è l’incanto elegiaco nella forma, il mondo degli affetti e della memoria femminile nei contenuti: mai titolo di una raccolta poetica è stato più appropriato.

 

«Steve» n. 15, autunno 1996