GIOVANNI GIUDICI, LUME DEI TUOI MISTERI – MONDADORI, MILANO  1984

Tra i poeti ritenuti più importanti oggi in Italia – Bertolucci, Caproni, Luzi, Zanzotto e Giovanni Giudici – solo quest’ultimo sembra tenersi ostinatamente lontano da quella metafisica della parola o del pensiero che appare invece il tratto dominante negli altri. Poeta “fisico” e immerso nella fisicità, Giudici si è conquistato una sua posizione insolita nella nostra letteratura, pressoché unico cantore del reale, del corpo, della “cosa” entro i cui limiti sa ridurre tutto (anche la storia, che non esiste se non in quanto fatta di azioni particolari, di personaggi particolari). Negando metafisicità anche a Dio, Giudici fa dell’accadimento e dell’accidente la nostra unica, complice e crudele, divinità. E per questa sua lunga e fedele dichiarazione d’amore alla concretezza dell’esistente, Giudici ha scelto oggetti emblematici (la donna, la quotidianità), uno stile narrativo e dialogante, alcuni vezzi linguistici quali l’abolizione quasi totale del congiuntivo – modo della supposizione e della possibilità – a favore dell’indicativo, modo della realtà. Lume dei tuoi misteri, l’ultimo volume uscito nella collana dello Specchio, ribadisce questa indubbia e originale scelta di campo per il reale, riproponendo, ma con una nuova scioltezza e con una rappacificata naturalezza (non lontana, a volte, da un divertito autocompiacimento) i temi più tipici e consueti della sua poesia, da O beatrice in poi, costringendo, in una fusione che ha del profetico e del maledetto, anima e carne, peccato e salvezza. “Il lume” di questo titolo, che sa di gotico e di litania, è appunto la salvezza che si lascia intravedere per poi subito scomparire, mentre i misteri si diradano o si infittiscono, manovrati dall’unica presenza in grado di suggerire una risposta. Più che mai in questi versi, infatti, è una figura femminile a essere strumento e attore, soggetto e oggetto concreto della poesia. In questo libro, una supposta Emma, nome privilegiato già dalla raccolta La Bovary c’est moi, ma qui Emma-donna, Emma-mamma, Emma auf einer Treppe (e quante madonne sulle scale che dagli uomini portano a Dio!). Come sempre nelle poesie di Giudici, la donna è insomma la “parusia” più vicina ed esemplare per arrivare ad altro, in un’incertezza tormentante tra il possesso e la contemplazione. Apre il libro una significativa poesia, Amparo, che in spagnolo significa rifugio-soccorso, ed è insieme il nome dato a una lei che tra cosce e sospiri («Amparo of your thighs / sighs»), offre il suo corpo alla mani dell’amante-adorante, bruciante di passione mistica («Vista e sapore e umore portarmi via / Tutta stamparmi addosso»), nello stesso tempo escludendole, queste mani, che vorrebbero penetrarlo nelle carezze e farsi altro da sé: costringendole all’aria (ancora in Sembiante: «Ma le mie mani erano aria / Non ti potevano tenere»; e in Madrigale: «Afferrata alla sua annaspante mano»). Fare l’amore è comunicarsi con il tutto, in un’allegoria blasfema e sacra insieme del sacramento dell’eucarestia («Premi ogni mia parola al tuo palato»), è un rituale di adorazione («e in posizione / Di orante orizzontale intento / Io all’orizzonte della sua biforcazione // Dove un segreto sole e oro / Si annida»), un modo di cancellarsi per rinascere («Infossarsi al suo bel tondo», «Insinuandosi al dischiuso / Orto del santuario», «Emma mia sola madrefiglia // Di chiari crini viva / A quel raggio fenditura»), come attraverso un battesimo. Ma sembra essere la confessione il sacramento cattolico di cui Giudici sente più nostalgia, ondeggiando tra la tentazione di inabissarsi nel baratro del peccato, nella «foresta» dei sensi, e quella di risollevarsi attraverso il miracolo della redenzione («La quasi santità / Del nostro unico peccato», «Nella virtuosa perversione», «Perdona la mia paura / Mio solo grande peccato», «assassina / Era l’anima mia se non la mano», «Alzami al punto alto dov’è futuro / Il salto al più rischioso vero»), in un’ansia continua di autoaccusa e bisogno di assoluzione («E in fondo che male ha fatto in fondo non è sua / La colpa è tutta di quella troia»). Talmente ossessiva è questa ricerca di assoluto, e talmente limitato e castrante il mezzo impiegato (questa lei che non è mai del tutto all’altezza dell’impegno che le si richiede: sfugge, recalcitra, tradisce…), che per forza di cose Giudici rasenta l’eresia, si riconosce “diverso” fino a supporre un’originaria ascendenza ebraica, che giustifichi questa sua esclusione-autoesclusione dalla “coscienza pulita” degli altri. L’indagine, la riflessione sulla storia diventa allora ricerca di individuazione, recupero del proprio passato, con una predilezione particolare per gli anni dell’anteguerra e della guerra, della sua infanzia e giovinezza. Il filmino riproiettato dalla memoria viene bloccato su alcune inquadrature che riproducono un nome (il campione ciclista Pola, nel ’33), un gesto (la bandiera rossa issata sul regio incrociatore Trento da un operaio comunista, sempre nel ’33, o la sigaretta del giovane nazista recuperata da un Giudici partigiano, che si inteneriva sulla sorte dei prigionieri), mai un’idea. Così di tutto il processo maoista in Cina, ciò che rimane e importa nella poesia di Giudici è il metodo usato per sterminare i passeri, «flagello dei raccolti»: i contadini li costringevano a non posarsi mai, finché gli scoppiasse il cuore. Cose che, da un punto di vista poetico, poco si concilia con la rivoluzione: «Benché per comunismo a più d’un comunista / Il cuore era già scoppiato».

 

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