GIOVANNI GIUDICI, FRAU DOKTOR – MONDADORI, MILANO 1989
PROVE DI TEATRO – EINAUDI, TORINO 1989

Credo sia capitato a tutti noi di provare un inconfondibile struggimento nel riascoltare una musica che ha segnato un momento particolare della nostra vita. Le note si portano dietro una frase, un amore, una città: e se non è detto che il ricordo sia sempre felice, la commozione è comunque intensa, ci fa per un attimo tacere se stavamo parlando, rallentare se in macchina correvamo. Per chi come me guada “nel mezzo del cammin”, saranno le canzoni dei Beatles o di Lucio Battisti a creare l’atmosfera da magone, per i più anziani Edith Piaf o Sinatra: tremo al pensiero che i nostri figli possano provare le stesse emozioni riascoltando Jovanotti o l’acid music. Tristi gli anni non segnati da canzoni, anni muti, forse anche di sentimenti, oltre che di note. I miei anni silenziosi sono stati quelli dell’università, troppo zitti forse perché troppo seri, e pieni di cose, di avvenimenti, di rabbie: dovessi nominare un cantante o un gruppo in auge intorno al 75, non me ne verrebbe in mente uno. Fumo nelle aule magne, tatzebao, manifestazioni e volantini, Capanna col megafono; ma nessuna canzone. Eppure, ad addolcirmi labbra mente e cuore in tanto impegno esaltato e frustrante, se non c’è stata musica, ci sono stati dei versi. Sì, per alcuni anni mi alzavo, vivevo, andavo a dormire ritmando il mio tempo sul leit motiv di qualche poesia. Avevo già letto e imparato a memoria molte cose di Saba, di Penna, di Caproni, e ciascuno di loro mi aveva lasciato un’eredità particolare. Ma è stato l’incontro con la poesia di Giovanni Giudici che ha cambiato il mio rapporto con la quotidianità, facendomi scoprire la poesia nelle-delle cose.

Dico che arriverai da un lungo treno del mattino. / E devo voltarmi a ogni socchiudersi di porta se non sia tu- / o trasalire allo squillo uguale / a ogni altro se mai non fosse la tua voce / dall’altro capo a parlare, immaginarmi / rispondendo nel tenore convenuto che / a tutti indifferenza significhi e a te / invece: dove sei, mio amore, mio benvenuto? / Quale dei lunghi treni ti porterà? / Quale dei lunghi treni ti avrà portato?

Sono versi tratti da La Bovary c’est moi, una delle prove più alte di Giudici, che io scoprii nell’Oscar Mondadori a lui dedicato nel 74: libretto segnato dagli anni e dalle mie intemperanze di allora, pieno di sottolineature, conservato con la cura che si dedica agli amuleti preziosi. Ho riletto lo stesso brano recentemente, in un numero della rivista Poesia in cui si offriva ai lettori un’antologia del percorso poetico dell’autore, insieme ad alcune sue illuminanti considerazioni sul come fare poesia. E subito, come appunto succede con le canzoni, mi è galleggiata dentro un’atmosfera, insieme alla pregnanza della strofa successiva:

«Ho guardato l’ora all’orologio sul muro. / Ho aspettato lo squillo già / scusato come e perché non hai potuto chiamarmi, / ho pensato: e pensare che ero qui sola. / Brevi minuti ancora mi restano per supporre / il tempo che tu raggiunga la strada della mia casa / e un suono di citofono a questi miei inferi emerga / definitivo come un lieto annuncio di morte… / Ti scambieranno per uno come un altro – ho scherzato. / Arriverai domani se oggi non sei arrivato».

Cosa poteva esserci nei versi di questo poeta da attirare così violentemente me ventenne? In fondo erano anni letterariamente tutti conquistati allo sperimentalismo, o allo più sboccato populismo, e Giudici si proponeva come una figura discreta, vagamente ironica e anche autoironica, molto lontana sia dall’immagine dell’artista maledetto sia da quella del vate che parla cripticamente. Mi è parso subito uno dei pochi che tentasse di coniugare caparbiamente etica e poetica, deciso a non rinunciare a un impegno più morale che politico dello scrivere, realista in un’epoca di formalismo, capace di indignazioni ma anche di grandi utopie, come indicano questi versi (cristiani? comunisti? Giudici accomuna le due filosofie in un’ampia preghiera di salvezza):

Da quanti anni non vedo un fiume in piena? / Da quanto in questa viltà ci assicura / la nostra disciplina senza percosse? / Da quanto ha nome bontà la paura? // Una sera come tante, ed è la mia vecchia impostura / che dice: domani, domani…pur sapendo / che il nostro domani era già ieri da sempre. / La verità chiedeva assai più semplici tempre. / Ride il tranquillo despota che lo sa: / mi calcola fra i suoi lungo la strada che scendo. / C’è più onore in tradire che in essere fedeli a metà.

Parole sferzanti, che invitano a fare i conti con l’anima e col corpo, con l’assoluto e il compromesso, con il destino e con la storia. La poesia successiva di Giudici (da Il male dei creditori a Lume dei tuoi misteri, fino all’ultimo splendido libro Salutz) è diventata via via più controllata stilisticamente e nei toni, meno vibrante e più amara, ma comunque sempre ostinatamente lontana da quella metafisica delle parole e del pensiero che appare invece il tratto dominante negli altri poeti operanti oggi in Italia. Poeta “fisico” e immerso nella fisicità, Giudici si è mantenuto cantore del reale, del corpo, del sesso (adorato paganamente e religiosamente dissacrato): anche la riflessione sulla storia diventa per lui ricerca di individuazione, recupero del proprio passato, con una predilezione particolare per gli anni intorno alla seconda guerra mondiale, anni della sua giovinezza: «Quanto di storia mi è transitato addosso / A me che sono un privato».
Tutto questo lungo discorso vorrebbe essere un omaggio a Giudici, una mia dichiarazione di fede-fedeltà a un poeta che ho molto amato e mi ha dato molto, e insieme un invito, un incoraggiamento a chi leggesse queste note ad avvicinarsi alla sua poesia. Nella speranza che Mondadori si decida a pubblicare un’antologia completa di questo autore, potrebbero comunque servire da introduzione alla sua opera due volumi usciti da poco e quasi contemporaneamente: il primo (Frau Doktor, Mondadori) di prose varie, e il secondo (Prove di teatro, Einaudi) di versi. Entrambi prefati da pagine di acuta competenza e puntualità (l’uno da Edoardo Esposito, l’altro da Carlo Ossola), sono accomunati dal fatto di essere stati composti in un arco di tempo molto esteso, e di accompagnare quindi, scandendola, tutta la produzione “maggiore” di Giudici poeta. Sappiamo che l’autore è anche prolifico e apprezzato giornalista (recensore e commentatore de L’Espresso e de L’Unità), che si è occupato a lungo di pubblicità per l’Olivetti e che ha tradotto molti poeti dall’inglese e dalle lingue slave; in qualche modo tutto questo suo operare in maniera diversificata con la lingua scritta, gli ha fornito quella versatilità e concretezza che ben sono rappresentate dai due volumi sopra citati.
Frau Doktor si divide in due sezioni: Propositi di narrazione e Diari, itinerari, la prima più ambiziosa nel proporre testi di indubbio respiro narrativo, racconti complessi e stilisticamente elaborati, spesso non vincolati ad alcuna contingenza autobiografica; la seconda più legata a occasioni cronachistiche, a osservazioni di costume, a memorie di viaggio. Tutti questi testi si possono leggere, e forse si dovrebbero leggere, autonomamente, come episodi di una scrittura sempre brillante, sempre interessante: ma io non l’ho fatto, ho dato la preferenza a quei brani che in maggior misura mi rendevano echi di situazioni e ambienti conosciuti attraverso i versi. Quindi l’infanzia in Liguria, la giovinezza a Roma, un grande amore praghese, trattati con la stessa leggerezza e lo stesso incanto che in poesia. Il secondo volume, Prove di teatro, raccoglie tutti quei versi che, composti tra il 53 e l’88, dovevano far parte della raccolte maggiori e all’ultimo momento non sono stati compresi, per un eccesso di severità autocritica, per una sorta di censura stilistica, ed ora giustamente sono riproposti al pubblico come “prove” che contengono in nuce i motivi fondamentali della produzione già nota. Abbiamo perciò poesie d’amore e di memoria, poesie civili (come la splendida Di lontano, dedicata alla rivolta ungherese del 56, o la rabbiosa Anni affluenti), e poesie divertite e irridenti (Stopper). Troviamo anche qui versi memorabili, versi-talismani («Era sempre difficile trovarti, / lasciarti fu incredibile», «Per questa sola differenza che / c’è tra il vivere e l’essere costretti / a vivere»), attraverso cui la poesia svolge la sua funzione, che è quella di dare emozioni a chi la legge. Anche se oggi va di moda tormentarsi sulle parole, forse perché ad essere non si sa più affidare nessun messaggio.

«Agorà» (Svizzera), 20 settembre 1989