JEAN GUITTON, CHE COSA CREDO – BOMPIANI, MILANO 2003

Jean Guitton, grande filosofo cattolico francese, aveva conosciuto un notevole successo editoriale qui in Italia con il suo Dio e la scienza, lunga intervista-dialogo con due fisici russi (G. e J. Bogdanov) sul senso ultimo della vita e sulla veridicità dell’ipotesi religiosa. Ciò che probabilmente in quel testo aveva stupito e attratto il lettore laico, emozionando profondamente il lettore credente, era forse non tanto il rigore dimostrativo e l’estrema chiarezza espositiva delle tesi dell’autore, quanto la sua tenace volontà, candidamente ammessa e razionalmente giustificata, di cercare ad ogni costo una conciliazione tra le motivazioni della fede e quelle della ragione.
Lo stesso slancio emotivo, lo stesso desiderio di comunicazione e compartecipazione di un mistero, anima anche il volume che Bompiani mandò in libreria per la prima volta nel 1993, con una ventina d’anni di ritardo rispetto alla pubblicazione francese. Che cosa credo, titolo lapidario, quasi testamentale per un libro che si presta ad essere letto, più che come una dichiarazione d’intenti, come apologia di una scelta e di una vita.
Guitton, allievo di Bergson e di Teilhard de Chardin, testimone vivace e critico del suo tempo e del suo paese, dichiara di credere, in primo luogo, nel Credo: e non è un gioco di parole, tant’è vero che il libro si chiude con due versioni rivedute e corrette, che contaminano poeticamente la preghiera di Nicea e quella degli Apostoli. Crede perciò nella fede come esigenza primaria, insopprimibile, dell’uomo, determinata sì da una scoperta conoscitiva, da un’esperienza intellettuale: ma soprattutto motivata da un’esperienza personale. Inevitabile è stato per Guitton credere, perché la sua fede è naturalmente germogliata in una famiglia di credenti, ed è stata alimentata da una costante pratica religiosa, fatta di pietas e d tradizione. Una fede “genetica”, per così dire, che si è coniugata a un destino, chissà se casuale o necessario, fatto di incontri, eventi, epifanie che hanno contribuito a irrobustirla.

«Ho notato che non ho affatto scelto i miei amici, i miei maestri,i miei iniziatori, la donna che ho amato: mi sono piombati addosso, come degli accadimenti felici…Numerosi sono gli accordi armoniosi tra la preghiera e l’evento, accordi che formano la trama della vita. Un giorno, forse un secondo prima della nostra fine, ci renderemo conto di questa armonia sostanziale».

Sono pagine altissime, queste dedicate all’inevitabilità della fede, alla concreta possibilità che esista una rispondenza tra caso e necessità, tra destino collettivo e individuale, tra scelta e costrizione. Tale accordo ci verrà rivelato o smentito nel momento finale, della morte, quando ateo o credente si giocheranno tutto. «Un momento estremo (e che si avvicina sempre più velocemente) deciderà tra la fede e l’assenza di fede. Anche qui, le situazioni non saranno identiche, dato che, se il nulla è la verità ultima, all’ateo non resterà neppure la gioia del trionfo. E se invece il nulla non è, se Dio è, un’evidenza eterna farà sì che non ci sia bisogno di parole o di dialoghi». Il credente rischia però di più, rischia di aver dedicato la sua esistenza a qualcosa di illusorio e di ingannevole, e Guitton quest’ipotesi la prende in considerazione con spietata onestà intellettuale. «Per sapere se ciò in cui credo è vero o falso, non ci rimane altro che aspettare. Se mi sono sbagliato, non ci sarà dialogo tra voi e me: il triste sonno della morte seppellirà ogni cosa. Ma se non mi sono sbagliato, allora la vista del Vero sarà così chiara che i miei avversari di oggi saranno uniti a me nella stessa luce».

E mettendo in conto anche la delusione totale, si lascia prendere dalla più scandalosa delle tentazioni, quella della negazione di Dio: e tuttavia anche in tale tremenda eventualità si dichiara disponibile alla follia della passione mistica. «Se nel momento della mia morte vedessi chiaramente che mi aspetta il nulla, e tutto quello in cui credevo si rivelasse un’illusione, non rimpiangerei per niente al mondo di essermi sbagliato quando ero in vita e di aver creduto alla verità del cristianesimo, perché sarebbe l’amore infinito ad avere il torto di non esistere, e non io per aver creduto in lui».

Che cosa credo è un libro scarno che si legge trascinati dalla foga, dall’ebrezza entusiasta di chi l’ha ascritto, e che tuttavia in questo slancio è riuscito a mantenere una sua lucida impronta razionale.
Non solo la fede, quindi, viene indagata da Guitton. Bensì anche Dio, inteso come ente che può sopportare persino l’esigenza miope di prove dimostrative della sua esistenza: Gesù, come figura storica e non mitica; la Chiesa, nel suo trionfo e nella sua crisi attuale, i santi e la società laica. E soprattutto la persona, l’uomo che ciascuno di noi è, animato al desiderio intenso di affidarsi «alla speranza che è in lui», e subito dopo attratto dall’incredulità, dalla voglia di sbeffeggiare questa speranza: perché «ciascuno di noi possiede nei sotterranei di se stesso un doppio che è il suo tentatore». Sta a noi decidere quale strada seguire, che cosa credere.

 

© Riproduzione riservata      

www.sololibri.net/Che-cosa-credo-Jean-Guitton.html    28 dicembre 2015