THOMAS HÜRLIMANN, NEL PARCO – GARZANTI, MILANO 1992

Un nuovo autore svizzero, Thomas Hürlimann, nativo di Zug ma vissuto tra Zurigo e Berlino, già noto sia per importanti lavori teatrali, sia per una raccolta di racconti (La ticinese) che gli era valsa dieci anni fa autorevoli riconoscimenti, ha pubblicato presso Garzanti la traduzione di un suo romanzo dell’ 89,  Nel parco. Romanzo di atmosfera, in cui accade poco più di niente: due anziani genitori – lui, ex militare di carriera; lei, moglie tenace e madre tradizionale – porgono giornalmente omaggio alla tomba dell’unico figlio maschio, morto di cancro prima di poter comparire in divisa davanti al padre. «Erano i genitori di un figlio morto. Erano sopravvissuti al loro discendente, al portatore del nome ed erede, che avrebbe dovuto continuare nel futuro il casato. Questo era un controsenso della natura. A esso, un po’ per cordoglio, un po’ per penitenza, veniva pagato un tacito tributo mediante la quotidiana visita al cimitero».

La morte del ragazzo, nato dopo sei femmine, sembra rendere più profondo e definitivo il baratro che da tempo si era aperto tra marito e moglie: primo, insidioso segnale di rottura è il dissidio tra i due sul tipo di stele funeraria da porre sulla sepoltura. E’ la moglie, con femminile e prevaricante testardaggine, che riesce a realizzare il suo progetto di un monumento in granito. Il colonnello si adatta, adeguandosi anche al rito della visita giornaliera al cimitero, un parco elveticamente impeccabile nel suo curatissimo verde, ma altrettanto macabro nel memento calvinista riservato ai visitatori: «Quello che voi siete, eravamo noi. Quello che noi siamo, sarete voi». Docile nel seguire la consorte e nel condividerne il cordoglio, l’anziano militare mantiene però una quasi infantile autonomia nell’imporre a queste visite uno stile soldatesco, ormai patetico: «Il colonnello dava l’ordine di partenza, direzione tomba»; «Lassù gli riusciva proprio tutto. Lì era il fronte, lì il vecchio soldato era nel suo elemento». E ben presto trova una motivazione più urgente dell’omaggio al figlio per giustificare la sua adesione al rito quotidiano: tra le tombe sbuca un gatto randagio, «un essere smagrito, ossuto, tremolante» che lui prende a nutrire di nascosto dalla moglie. E mentre lei è dedita a lavori di giardinaggio o di pulizia della tomba, il colonnello si distrae in grottesche operazioni tattiche di «rifornimento» all’animale, che subito assume un rilievo allegorico, trasformandosi nella proiezione dell’unica forma di vita in quella città dei morti.

«Comparve da Emilio Hagedorn, infarto cardiaco, un’ombra che lambì il marmo chiaro, qualche attimo dopo sgusciò intorno all’acquasantiera del commilitone Kessler, una faccenda di prostata con complicazioni laterali…Allora lo vide, stava arrivando, allarme rosso. Altri tre minuti… e avrebbe raggiunto la carnosa copertura di fogliame sopra la tomba dei Siegenthaler, lui cancro allo stomaco, lei all’intestino». Il sostentamento della bestiola costa al colonnello tempo ed energia, in primo luogo per procurare e conservare la razione giornaliera di carne senza dare nell’occhio (e allora, visite improvvise e ingiustificate al supermercato, riserve di cibo negli armadi di casa o nelle tasche dei vestiti fuori stagione), con il susseguirsi di situazioni imbarazzanti, che allarmano la moglie e tutto il parentado. Ma il vecchio è ancora un soldato: «semel miles, semper miles», e continua imperterrito nelle sue operazioni di rifornimento, studiando nuove tattiche e aggiornandosi su riviste di strategia militare per aggirare il nemico ottenendo lo scopo prefisso. In un crescendo di allucinazioni e frenesie, il gatto diventa alleato e insieme obiettivo strategico: «Il figlio? No, pensava il colonnello. Lo conduceva alla tomba il dovere. Lui, il vecchio soldato a riposo, nella vecchiaia era diventato l’ufficiale di sussistenza di un animale randagio». La moglie non capisce, soffre, si sente schernita nella sua sofferenza di madre, e teme nel marito una forma di demenza senile.

«Lei amava le sere presso la tomba, lì era felice. Quello che diceva era preghiera, e quello che faceva le si trasformava tra le mani in metafora…Un dio malvagio le aveva rubato il figlio, ora un gatto da cimitero le rubava il marito: il suo cuore si chiuse in una morsa di gelo». Intorno alla coppia, sempre più smarrita e incapace di sfogare il proprio strazio, le figlie sciamanti, i generi indifferenti, i nipoti capricciosi, e soprattutto l’imponenza triste della grande villa sul lago, un parco deserto e denso di ricordi, presenze minacciose nel loro silenzio. E’ un disagio inespresso e inesprimibile, quello che mura i gesti dei due vecchi in triste incomunicabilità, reso più drammatico da un paesaggio immobile e inespressivo, da una cultura nevrotica e superficiale, dalla neve che tutto livella, ma su cui ancora compaiono, incancellabili e vincenti, le orme del gatto, tracce di un’animalità che è vita. Molto critico nei riguardi della società in cui è cresciuto, strozzata da mode intellettuali che a volte assumono volti riconoscibili (da quello junghiano a quello antroposofico), Hürlimann è crudelmente pessimista anche nelle pagine finali del romanzo, forse un po’ affrettate e volutamente conclusive, rispetto al lento dipanarsi della vicenda. E crudelmente patetiche sono comunque la pazzia del colonnello, che beve il suo whisky col biberon, e la confusione mentale della moglie, intenta a cercare sul lungolago, ogni sera, la sposa adatta per il figlio morto.

 

«L’Arena», 13 febbraio 1992