JOLANDA INSANA, TURBATIVA D’INCANTO – GARZANTI, MILANO 2012

Le sei sezioni di cui è costituito l’ultimo libro di versi di Jolanda Insana risultano assolutamente omogenee nell’esibire una provocatoria, esacerbata violenza di immagini e tonalità; un linguaggio che si squaderna incalzante e scorticato, contorto, dissacratorio, privo di qualsiasi punteggiatura che non sia il punto di domanda; strofe disuguali e graficamente distribuite tra caratteri corsivi e tondi; un rincorrersi esaltato tra sensibilità civile e politica da una parte e egocentrica, insuperbita assunzione del privato dall’altra. Una poesia che si infossa, intorcigliata, sbaragliata, gracchiante – per usare alcuni degli attributi presenti nel primo poemetto-, a indagare «la vita offesa che cerca la verità»: offesa, ma anche malata, rabbiosa, atterrita, inabissata. Che affronta le tragedie di una storia universale di distruzione e imperdonabile ingiustizia (dalle alture del Golan all’Afghanistan, da Gerusalemme risalendo fino al bombardamento di Dresda, a un mortificato ecologismo sconfitto): ovunque dove «scortati e scortatori / finiscono nelle reti dei pescatori». Ma soprattutto grida il suo spasimo furioso, bilioso, quando «battibecca / con il suo doppio condiscendente», un alter ego odiato e svillaneggiato, un’ombra femminile onnipresente e castrante: forse la vicina di casa del piano di sotto, più giovane e più stupida, del tutto impermeabile alla poesia, alla cultura, alla storia («perché ce l’ha con me / e attenta alla mia vita?»). Con lei ingaggia un corpo a corpo arrabbiato, fatto di reciproche definizioni offensive («blenorragica e garosa», «sdrumata e sdrucita», «squinzia vampiretta sbollentata», «diabetica ipertrofica parabolante», «cachettica pelosa»). Si tratta di due solitudini rancorose che si confrontano in duelli verbali sarcastici e volgari, maledicendosi e oltraggiandosi, in una totale e ostentata incapacità di comunicazione, in un turpiloquio che oscilla tra la banalità del pettegolezzo condominiale e la sfrontatezza di farisaici processi ideologici. Droga, sporcizia, squallore quotidiano, sesso brutale: ciascuna figura diventa il fantasma ossessivo dell’altra («sei tu che ingrassi i miei dèmoni / stitica ulcerosa»), e all’ottusità intellettuale dell’una si oppone l’ambizione poetica insoddisfatta dell’altra («mi cammini sopra la testa / con gli scarponi chiodati / e urli notte e giorno / tu con le tue poesie / con la tua falegnameria»). Il ritratto della nemica è impietoso, si risolve in coppie di aggettivi contrapposti e crudeli (banale e boriosa, pelosa e segreta, razzista e oltranzista, frodolenta e imbonitora, sciancata e lazzariata, infibulata et sitibonda…), fino alla rivelazione finale, che è anche una confessione pentita, un’ammissione di colpa e sconfitta. L’altra sono io, la poesia crea i suoi spettri, incubi deliranti: «non c’era nessuno dietro la porta / l’alloggio era disabitato e l’ho abitato / ma non c’era e non c’ero / era il mio doppio disagiato / ora lo so e sloggio», «esce di scena l’azzoppata iena / muta e scriteriata / e più non urla ti faccio guerra ti spacco». Un turbamento, una turbativa che sa di sfida illegale, di compiaciuta provocazione, di letteraria sobillazione.

 

«Leggendaria» n. 95, settembre 2012