PHILIPPE JACCOTTET, IL BARBAGIANNI – EINAUDI, TORINO 1992

Encomiabile risulta la recente iniziativa einaudiana di pubblicare nella prestigiosa Collezione di poesia un volume di Philippe Jaccottet, per la prima volta presentato al pubblico italiano con una raccolta organica dei suoi versi, con la prefazione e la traduzione del più promettente dei poeti ticinesi, Fabio Pusterla, e con un saggio illuminante di Jean Starobinski.
Jaccottet è autore svizzero di nascita e formazione, francese di adozione e, potremmo dire, di vocazione. Conduce oggi a Grignan, un paesino della Provenza, una vita schiva e dedita alla riflessione, alla produzione e alla diffusione della poesia. Traduttore dal tedesco (Musil, Rilke e Mann) e dall’italiano (Ungaretti, soprattutto, ma anche Montale e Caproni), è stato stranamente ignorato dalla nostra cultura così debitrice nei suoi confronti, forse solo (come suggerisce Pusterla) per caso, per dimenticanza. O più probabilmente perché Jaccottet ha scelto una via “moderata” e “dignitosa” di approccio alla poesia, snobbando da un lato sia l’impegno ideologico e lo sperimentalismo formale più azzardato, dall’altro contestando nei fatti il rimbaudiano “sregolamento dei sensi”, che tende a riflettersi esteticamente nella rottura totale con la tradizione.
Con Montale, Jaccottet ha scelto la via della «decenza quotidiana» nell’esistere: «Temevo soprattutto le formule categoriche, i rifiuti assoluti o le affermazioni perentorie, perché mi pareva che l’uomo che alza la voce o che picchia il pugno sul tavolo lo fa spesso meno per reale convinzione che per coprire il rumore dei suoi dubb»i.

E a questa sobrietà, essenzialità esistenziale, Jaccottet rimane coerentemente fedele anche nella scrittura; la poesia è lettura esatta, decifrazione puntuale delle cose, non paludata da espedienti formali che depistino il lettore distraendolo dal suo fine ultimo: che è quello di cogliere barlumi di verità, di approssimazione alla luce. «Non è appunto questo il lavoro che il poeta effettua sulle parole? Da opache, come gli furono date, si ostina a rendere loro la trasparenza, a renderci la felicità… Forse bisognerà ridursi a una posizione più modesta, a una via di mezzo: la poesia che illumina la vita come una nevicata, ed è già molto aver conservato gli occhi per vederla…».

Qual è, dunque, il compito del poeta? Jaccottet risponde in versi: «Compito dello sguardo che s’offusca / non è sognare o piangere, è vegliare / come un pastore il gregge, e richiamare / ciò che rischia di perdersi nel sonno»». E’ un richiamo che può essere attuato con parole comuni, addirittura logore, attraverso la descrizione di paesaggi quasi virgiliani (i boschi, le acque, insetti e uccelli…) e di situazioni di vita quotidiana che in qualche modo ricordano la nostra linea lombarda («Domenica popola i boschi di bambini che frignano, / di donne che invecchiano; / un ragazzo su due sanguina / si lasciano cartacce vicino allo stagno…») secondo moduli consolidati da una tradizione letteraria millenaria (rime, sonetti…). Dov’è dunque la peculiarità, ma anche la modernità di questa voce poetica? E’ nella sua limpidezza assoluta, nella sua cristallina musicalità, che ci fa respirare l’aria rarefatta e purissima dell’alta montagna, la trasparenza luminosa di altre atmosfere. Ma anche nella sua sapienza tranquilla, sicura e rassicurante, di una risposta che si intuisce al di là del mistero, della parola-viatico che ci accompagni, aiutandoci a passare «senza paura e senza rimpianti la soglia di quell’oscuro spazio che ci attende per inghiottirci o per cambiarci».

 

«L’Arena», 6 agosto 1992