FRANZ KRAUSPENHAAR, LE BELLE STAGIONI – MARCO SAYA, MILANO 2014

Le belle stagioni di Franz Krauspenhaar partono dall’inverno e all’inverno tornano («Ho fatto tutto / un giro scrivendo le mie pene, / roba che non preme a nessuno»), attraversando primavera estate e autunno, in quattro sezioni intitolate in olandese e chiosate da citazioni di altrettanti pittori fiamminghi (Bosch, Jan Van Eyck, Pieter Bruegel il vecchio, Van Gogh). Non tanto, come fa giustamente notare il prefatore del volume Andrea Caterini, perché questa poesia esprima una particolare sensibilità figurativa o coloristica, quanto perché il rimando ai Paesi Bassi costituisce nelle pagine un discreto ma costante leit motiv. Krauspenhaar, infatti (nato a Milano nel 1960 da padre tedesco), immagina una sua discendenza da un antenato olandese del 1400 – Frans Kroeshaar-, costretto a lasciare le sue terre per una persecuzione politico-economica: «sono assorto a scrivere / di Frans e so che scrivo di me, / con vesti antiche», «Sono l’uomo di oggi / e quello di ieri, il soldato del cuore e della mano, / il mercante, il religioso, il bandito. Il nome che ho sempre avuto è del nobile signore / Frans Kroeshaar»,

Un evidente pretesto letterario, la metaforizzazione di un’esigenza profonda, quella di un’individuazione, di una definizione del proprio io mai del tutto compreso e ricostruito: «Sono l’uomo delle stagioni, sono l’uomo / di tutti e di nessuno, sono l’anno diviso / per quattro». La ricerca del sé, delle radici familiari e ambientali, il recupero di un passato che possa rendere meno sfocato il presente affiora ovunque, insieme a una sorta di disamore, di sprezzante fastidio per la propria vicenda esistenziale: «io son diventato / una luce intermittente, un fanale / che perfora la nebbia, e non sa dove / s’è lasciato sfondare», «l’agonia / mi segue da decine d’anni», «Dove sei, dove vai, da nessuna parte, / nemmeno dentro di me, sono la superficie / del silenzio»,«Negro / di te stesso, nemmeno ti fai pena», «Usuraio di te stesso, limbo di te stesso», «Dove sei, me stesso».

Le parole si fanno violente, rabbiose, nei confronti della propria vita e di quella altrui, senza nessuna clemenza nei riguardi del mondo, delle donne, della cultura contemporanea (editoria, libri, vernissages e letture in pubblico, politica corrotta) e dell’ambiente circostante – illividito, triviale, blasfemo. Milano risulta sopportabile solo in virtù dei ricordi giovanili (le partite dell’Inter a San Siro, con l’allucinazione di uno stratosferico Jair che palleggia nella nebbia meneghina), ma è comunque definita «città morta, doppia, nordica e mentecatta», abitata da signore «stronze con il cane», «queste puttane luride». Roma è odiata e vilipesa («città di sobborghi e di spurghi, di immani / immondizie… / solo volgare vecchio / catarro», con un Vaticano di religiosi «impiantati nella merda / coi loro culi estinti». Forse solamente la musica può salvare dalla disperazione (il sax di Coltrane, il samba di Vinicius, e Piero Ciampi, gli Who, gli Air), perché l’amore è ormai ridotto a qualche stanca tenerezza con amiche comprensive e fugaci, o a una sessualità vissuta con ordinaria violenza in posti casuali e deprimenti. Formalmente, la poesia di Krauspenhaar si definisce al meglio proprio quando appare più esasperata, torrenziale, debordante, come nel primo capitolo dedicato all’inverno. Qui potremmo senz’altro trovare un ascendente nei versi inferociti e bestemmianti di Bukowski (accomuna i due poeti, ad esempio, lo stesso disprezzo per le festività borghesi del Natale e del Capodanno; oppure la descrizione di incontri clandestini in hotel loschi, le frequenti allusioni ai cessi sporchi e alla prostituzione). Nelle altre sezioni, l’autore sembra voler esagerare nei contenuti, con riferimenti talvolta fuorvianti o poco giustificabili alla storia mondiale e ai suoi protagonisti (dal Medioevo con le sue torture, al nazismo, all’America onnivora di plastica, a Papa Francesco), lasciandosi prendere la mano sia da un descrittivismo eccessivo, sia da una sentenziosità didascalica e alquanto retorica, o da reprimende moralistiche: «C’è questa paura / di parlare di vocazione; il nostro mondo che ha / risolto Dio, dentro l’evidenza della non presenza, / non vuol sentirne parlare, perché essi vogliono / la schiavitù e al contempo la molla dello spasso, / così che si vive soltanto per la fuggevole nomina».  Un’ansia di sfogo e di indignazione, che arriva a inficiare nella sua sovrabbondanza l’incisività altrimenti considerevole di queste poesie.

«Poesia» n.308, ottobre 2015