VIVIAN LAMARQUE, TERESINO – SOCIETA’ DI POESIA, 1981

Di questo volume edito recentemente dalla Società di Poesia, Teresino, Vivian Lamarque aveva offerto anticipazioni già nel ’76, quando suoi versi erano usciti in un’antologia di Savelli, e nel ’78, quando un’intera plaquette era stata pubblicata in un quaderno collettivo di Guanda. Già allora si era notato il timbro particolare dei suoi versi, pressoché unico, inequivocabile, nel panorama piuttosto omogeneizzato della giovane produzione letteraria, dove a un autore può benissimo capitare di essere scambiato per un altro. La Lamarque no, riconoscibilissima già da quelle prime pubblicazioni, proprio per la sua indovinata scoperta di un tono tra il cantilenante e il favoloso. Tuttalpiù la si leggeva con la riserva che un esperimento del genere potesse durare lo spazio di una mini-raccolta, andasse bene come antipasto, come assaggio: ma sarebbe stato in grado di reggere per un libro intero? Eccola, dunque, alla prova del nove: il libro intero. Sette sezioni, scandite da epigrafi in francese tratte dalla fiaba di Pollicino. Pollicino che lascia dietro a sé una traccia, è la traccia per entrare nel libro, per leggerlo senza rimanerne infastiditi: “farsi minimi per vincere gli orchi”, diventare trascurabili per risultare poi essenziali. Vivian inventa poesia per vincere i suoi fantasmi, che son tutti privati, elementi di un puzzle femminile comune a molte: grande amore, matrimonio, figlia, abbandono, solitudine, nuovo amore, nuovo abbandono. Riesce a evitare la trappola del luogo comune col vestire la sua storia adulta di un linguaggio infantile, minimo appunto, in cui non si mimano solo le espressioni dei bambini (gli “anche”, gli “ecco”, i “per esempio”, conclusivi e sottolineanti) ma addirittura le loro strutture logiche (il paradosso, la non consequenzialità dei concetti) e i sentimenti (puntiglio, dispetto). Avviene in questo modo che la poesia della Lamarque si ridimensioni, si prenda in giro nei contenuti (evitando l’accentuazione di passioni e sofferenze) ed esasperi fino alla provocazione la quotidianità, la trascuratezza della forma. In  L’amore mio è buonissimo, una trentina di “pensierini” vengono modulati sulla falsariga dei componimenti che i bambini svolgono alle elementari: «l’amore mio se morirà prima lui non creda! / perché anch’io morirò immediatamente / e così dopo due giorni riceverà una lettera  / con dentro l’ultima poesia/ e anche con spiegato come sono morta; l’amore mio a prima volta che è un po’ distratto me lo prendo e me lo porto via; io un giorno ho messo sotto il tergicristallo dell’amore mio un bigliettino / lui ha pensato a una multa invece no ero io».

E’ una poesia degli affetti (da cui sembra esclusa come scelta più che come possibilità la dimensione cerebrale, la manipolazione linguistica) che indulge persino al parolierismo canzonettistico, con l’uso di frequenti ripetizioni in funzione musicale, refrain, rime, assonanze che tendono a riprodurre l’effetto magico-fiabesco delle filastrocche: «Sempre più mi sembri una persona innamorata / e so che con me questo non ha a che vedere / e so che con me questo non ha a che vedere; Tua moglie che allegra lì fuori / ti fermi e la guardi che mangia la neve / ti fermi e la guardi che mangia la neve».

Se ascendenze, riferimenti letterari si possono supporre in un lavoro così originale, due nomi dovrebbero farsi: Rodari («Il mio primo amore il mio primo amore / erano due. / Perché lui aveva un gemello / e io amavo anche quello».) e il Giudici de  La Bovary c’est moi e di Persona femminile: «Per esempio portami per strade che tu vuoi / con la tua macchina / e ridi. / Ti sono affidata fino alla maggiore età. / Prendimi a cuore. / Dimmi di mangiare; Devastata da un suo guardare / se questo ancora è possibile cosa resta?»

Ci sono dei cedimenti, delle stanchezze improvvise in alcune sezioni, soprattutto dove l’eccedere di ingenuità, di candore, diventa simulazione, autocompiacimento: è il caso delle poesie più lunghe, e in particolare dell’ultimo capitolo,  Teresino, che dà il titolo alla raccolta (nel titolo stesso si avverte una certa affettazione, una sorta di manierismo). Ma ci sono anche segnali di un probabile e augurabile sviluppo futuro, quando il “minimo” si troverà a dover crescere, e sceglierà tra la dimensione favolosa (già annunciata in Pesce che vola) o quella ironico-parodistica («sta dietro ai vetri / un po’ più del normale / intendo i vetri di casa / se fossero vetrine / allora sì che direste che è normale), oppure quello autobiografica più matura, come in  Ridimensionare: «Quest’operazione / che la costringete sempre a fare / “ridimensionare”/ non è come stringere un vestito / non è indolore / si taglia la pelle del cuore».

INEDITO – 1981          © Riproduzione riservata