SILVANA LATTMANN, LA FAVOLA DEL POETA, DELLA PRINCIPESSA, DELLA PAROLA E DEL GERUNDIO – CASAGRANDE, BELLINZONA 1989

Recensire dei racconti è sempre difficile: arduo recuperare un filo comune sotteso a vicende, ambienti e personaggi diversi, problematico trarne un’interpretazione univoca, senza tuttavia tralasciare di mettere in luce le varie sfaccettature di una stessa esperienza di scrittura. Nel caso del volume di cui mi accingo a parlare ora, si aggiunge a tali difficoltà un’impressione (probabilmente soggettiva, ma non per questo trascurabile) di voluta ambiguità e provocazione, che libro e autrice sembrano voler insinuare tra sé e chi legge. Già dal titolo, così lungo, ammiccante e enigmatico, oscillante tra tradizione (favola, principessa) e novità (poeta, gerundio) fino alle scarne – scheletriche!- note biografiche dei risvolto di copertina, che nulla lasciano trapelare dell’autrice se non che «dal 1954 è cittadina svizzera», quest’ultimo volume di Silvana Lattmann dichiara orgogliosamente la propria osticità. Un libro di difficile lettura, che riesce sempre a insinuare nel lettore il dubbio di non aver prestato abbastanza attenzione alle allusioni, ai rimandi interni, di non essere abbastanza colto o sensibile; e lo costringe quindi a tornare spesso su pagine già lette, a rimeditarle, a interrogarsi. In genere, non sono i volumi di narrativa che chiedono uno sforzo di decodificazione e ricostruzione tanto partecipe: sono le opere di pensiero, filosofiche o religiose, quando toccano gli argomenti “eterni”; oppure ancora la poesia, così frequentemente oscura, oracolare, densa di significati da inverare. Nei quindici racconti di Silvana Lattmann si intuisce un’assoluta sfiducia nella possibilità di comunicare – attraverso la scrittura – una qualsiasi esperienza, e un’ altrettanto assoluta, insopprimibile esigenza di verificare le proprie emozioni, i propri ricordi nella concretezza della parola stampata: «Un rincrescimento la penetrò, la malinconia sulla chiusa incomunicabilità dei due spazi. Una rete di separazione lasciava passare solo intenzioni distorte (pag. 54)».

L’illusione di comunicare con i propri simili è pura finzione, non esistono infatti situazioni concrete da raccontare, o personaggi da descrivere. I gesti sono rallentati, le parole rarefatte, la natura si adegua, tormentosa, ai grovigli e ai travagli di chi la osserva. Domina queste “storie”, come ama chiamarle l’autrice, l’idea di uno spazio e di un tempo costretti a limitarsi in dimensioni umane, mentre aspirerebbero a un assoluto senza confini. Continui i riferimenti a linee, spigoli, superfici che ingabbiano il reale cercando di razionalizzarlo, come in uno dei racconti più riusciti (La casa), in cui un’abitazione si personalizza reagendo con simpatie o idiosincrasie molto umane alla presenza di chi la abita. Ossessivi sono i riferimenti all’assenza, al vuoto, alla mancanza: concetti, questi, in qualche modo catalizzati nel reiterato riproporsi della parole «buco», presente in quasi ogni racconto, nelle più varie accezioni. Costante è anche il ricorso a metafore, tra cui la più incalzante è quella dell’angelo come presenza salvifica, o dell’arlecchino come ingenuità e freschezza infantile. Le poche presenze umane sono figure femminili, parentali (sorella, madre, nonna), scorporate perché ormai lontane, morte, eppure effuse tutt’intorno, anch’esse metafora di una solidarietà affettuosa ma irrecuperabile. C’è anche, vaga, una figura maschile, di un poeta amico (Mario Luzi?), confessore e consigliere, ma pure lontano, evanescente. Questi rari punti focali appaiono però diluiti in una prosa visionaria e impalpabile, in un’estasi compiaciuta e – come tutte le esaltazioni intellettuali – profondamente aristocratica. Lo si intuisce bene nel racconto finale, che dà il titolo al volume, e ha le cadenze della narrativa favolistica, corrette tuttavia da toni ironicamente didascalici: uno scherzo, una metafora della parola scritta che accosta temi solenni e particolari grotteschi o banali, giocando con l’irrealtà e sbeffeggiando qualsiasi dato materiale e logico. Giustamente osserva Pio Fontana nella sua prefazione che qui «la ricerca della Lattmann diventa soprattutto ricerca linguistica, come lavoro onirico e visionario, visitazione ossessiva ed esorcismo, viaggio iniziatico che trova nel suo stesso ‘procedere confuso’ un senso e una ragione d’essere». Un viaggio per pochi, con trabocchetti insidiosi, sempre nell’attesa di un evento finale che tutto spieghi, tutto chiarisca.

 

«Agorà» (Svizzera), 4 ottobre 1989