Si raffredda la tua mano nella mia.
Sei proprio freddo, e pallido. Di marmo.
Mi spaventa il tuo respiro che va via
e il cuore fermo, ogni fibra in disarmo.

Mia anima, mi senti? Non fuggirmi,
non mettere alla prova il nostro bene.
Hai giurato fino a ieri di aderirmi
per sempre, mia roccia, mio lichene.

La tua bocca, adesso, le tue mani
sono quelle di un morto, non più mie.
Se verrà, lo maledico, il domani,
i suoi incubi, le sue dicerie.

Svegliati, caro, dimmi che hai scherzato.
Non ferire così i miei quindici anni,
i quaranta che avrò, ed un passato
breve, il futuro di nuovi capodanni.

Dimmi che avremo figli col tuo viso
e i miei occhi, che leggerò
in loro accennato il tuo sorriso.
In quello che diranno ti vivrò.

Sei così bello e giovane, un ragazzo.
Mio ragazzo mio sposo mio bambino,
che mi amavi col terrore di un pazzo
a cui hanno ipotecato il destino.

Sei stato la mia alba, il mio risveglio.
Puoi essere la notte, il sonno eterno?
Allora dormi, se per noi è meglio
che vivere a Verona, nell’inferno.

Ma che inferno dolcissimo è stata
questa città che ci ha fatto incontrare.
Oltre le mura della nostra borgata
non c’è mondo che ci possa salvare.

Qui c’è la piazza dei nostri appuntamenti
confusi tra la folla del mercato,
le mie rincorse, i tuoi pedinamenti
negli incontri casuali sul sagrato.

Il nostro fiume che procede lento
tra le arcate del ponte di sassi,
intorno ai campi di avena e frumento
dove tremando precedevo i tuoi passi.

Potessi rinnegarlo, io, il mio nome,
e tu tuo padre, la tua discendenza.
Riuscissimo a capire perché e come
si può sporcare anche la trasparenza.

E’ la nostra città che ci uccide,
così gentile e onesta come pare;
la gente che saluta e poi deride
chi nella vita non si sa adeguare

ai balletti agli inchini ai pregiudizi,
agli odi di borgata e di famiglia,
alle virtù esibite, ai tanti vizi
che anche il fango trasformano in fanghiglia.

Sono i potenti e le gerarchie,
i vecchi amici che ci hanno diviso
inventandosi trame, strategie,
per accerchiare il nostro paradiso.

Non è il mio amore che ti ha fatto male
ma il loro odio, la loro supponenza.
Il troppo bene non è mai mortale
come l’invidia, come la maldicenza.

I tronfi monsignori senza dio
che domani diranno la messa
non sanno quanto tu sei stato mio
senza toccarmi e con quale promessa:

ma vedi, io mi stendo qui vicino
e tengo nella mano la tua, viva,
pronta a seguirti in un lungo cammino.
Arriveremo insieme a un’altra riva.

 

In  Le mura di Verona, Lietocolle, Faloppio 1998 e in  Un diverso lontano, Manni, Lecce 2003