GAVINO LEDDA, LINGUA DI FALCE – FELTRINELLI, MILANO 1977

Dopo Padre Padrone, ormai alla quattordicesima ristampa, letto riletto commentatissimo filmato e premiato, quindi del tutto innocuo e digerito, Gavino Ledda ha scritto questo Lingua di falce per riproporre la storia della sua liberazione, del suo passaggio da uno stadio di vita sub-umana a uno stadio di consapevolezza critica. Ancora una volta il motivo di fondo è la volontà di conseguire, con tenacia e violenza, quella cultura con tutti i carismi dell’ufficialità (istitutore a Salerno, privatista a Sassari fino alla maturità, laureato a Roma) di cui si sente in credito, anzi defraudato. La narrazione di questa ricerca, di questo rapporto con la cultura che finisce per essere desiderio fisico, ansia di possesso, è interrotta e sottolineata da episodi di vita contadina, di paese, che hanno l’unica funzione di contrapporsi, come ostacolo e confronto, alla scelta rabbiosa e individuale di Gavino. Lingua di falce è la sola lingua posseduta da chi lavora o si esprime col corpo; perché la falce è un’appendice del braccio dei contadini, perché si muove con il ritmo che dovrebbero avere il canto e la parola quando cantano la fatica o l’amore, o qualsiasi altro aspetto della vita. Ledda vorrebbe riuscire a usare la parola, a manovrarla, con la stessa abilità con cui ha saputo usare la falce: come strumento di lavoro, quindi, ma anche come oggetto in sé, da costruire e limare continuamente. Questo è forse il progetto dei libri di Ledda, usare la parola come un’arma (la falce appunto), che ferisca e squadri ben chiari i confini in cui ci si muove. La falce racconta un passato (mito, tradizioni, ignoranza, pregiudizi), e spiana la strada a un riscatto. Questo è il progetto: politicamente, c’è il rischio che si riveli un’avventura isolata, la scalata dell’eroe a una montagna per i più inaccessibile. Infatti i colori che tendono a fare di Gavino un eroe sono tanti e accesissimi: Gavino ringhioso, Gavino indomito, sentenzioso, ammirato e invidiato, ma sempre irrimediabilmente solo. La comunità, il paese, gli altri sono sempre ostili, avversari, a ribadire lo scontro traumatico che il figlio ha con il padre. Per cui i compagni di scuola, la commissione d’esame, la città, la donna, sono tutti fantasmi che si sovrappongono a quello unico, enorme, paterno. Letterariamente, la lingua è felice quando appunto rimane falce, contadina per descrivere contadini, quando si lascia andare, mezza sarda e mezza italiana. Quando invece affronta il mondo borghese, allora non taglia più, arranca, si fa faticosa, diventa borghese e spesso brutta, troppo carica e eccessiva, troppo alla moda, con tutti quei “il mio io” e “gestire” che imitano senza ironia le menate della pseudo-psicanalisi. Così, quando il protagonista parla da dentro il suo ambiente, ne escono dialoghi svelti, incisivi, favole e storie di paese raccontate secondo le più antiche tradizioni narrative (dai nostri “exempla” medievali alle leggende russe); quando Gavino si racconta in opposizione agli altri, allora anche semplici conversazioni tra emigrati diventano requisitorie da tribune elettorali, prediche noiose e compunte, molto didascaliche. Se Ledda continuerà a scrivere, dovrà adesso affrontare la sua nuova cultura acquisita, dovrà saperci dire quanto di veramente liberatorio ha trovato in essa; e speriamo che la sua lingua di pastore non scelga la via dell’artificio letterario, da lingua di falce a lingua di best-seller.

«Quotidiano dei Lavoratori», 17 dicembre 1977