GINEVRA LILLI, DIARIO ORDINARIO –  MARCO SAYA, MILANO 2014

«Stringo la penna, graffio la carta»

Lo scritto in prosa che conclude questo volume di versi di Ginevra Lilli è in realtà quello composto per primo, nel 1993, quando l’autrice era poco più che ventenne: testimonianza di un male di vivere che già da quel momento prendeva a radicarsi nel corpo e nell’anima («Un piano inclinato che bascula su di un perno…Da allora faccio parte di tutta la tristezza che solo le onde sono capaci di raccontare e ripetere ogni giorno…Non so quanto tempo sia passato, non so neanche se nessuno si sia mai accorto di niente»). Questo senso di estraneità nei riguardi della propria e altrui vita, delle vicende pubbliche e private, addirittura dei propri confini fisici, si perpetuerà in tutti i versi successivi, scritti tra il 2009 e il 2014, dopo un silenzio buio durato anni: quasi che Ginevra si sia aggrappata alla poesia nel tentativo di riconquistarsi, di recuperare una serenità che l’esistenza le aveva minacciosamente negata.
Eccoli, quindi, questi versi quasi spavaldamente e consapevolmente ignari o diffidenti di tradizioni, eredità e correnti letterarie, e invece decisi ad affermare un loro autobiografismo fatto di sofferenza e di rabbia, di richieste d’affetto e amicizia, di ricerca di un salvifico approdo. Lo stile varia dal discorsivo quotidiano, come nella poesia iniziale («Quella alta,  / la vedi? / E’ saltata / da un treno! //… Poraccia. // Quel sorriso / è il suo. / Sempre quello. / Chissà.»), al cantilenante della filastrocca popolare («Niente premura, / sono in Gallura, / del continente / non mi frega niente»), al pacato-meditativo-orientaleggiante («Un dolce andare verso Oschiri, / in un accenno d’estate, / nel giallo pigro dell’erba, / nella luce chiara di mezzogiorno. / Tutto tace, tutto è buono»), o all’asseverativo, tendenzialmente gnomico, anche quando esprima le più lapalissiane verità («Tutto in questo mondo / è sesso-potere-denaro»). Non è infatti il risultato estetico ciò che interessa a Ginevra, quanto lo scandaglio nel dolore, che deve essere reso nell’immediatezza dei versi: franti, sincopati, incapaci di distendersi nella musicalità, o di controllarsi criticamente nel rigore metrico. La vita è un viaggio (Roma, Toscana, Sardegna…); la natura – soprattutto nel suo elemento acquatico, quindi amniotico – qualcosa in cui annullarsi; la cultura libresca una zavorra da cui liberarsi («Passamelo quel libro chiaro, il divano è zoppo. / Ci mettiamo questo qua, che ne dici? Ungaretti! / E’ del giusto spessore. / Oplà.»).
L’immagine che l’autrice tende a dare di sé è talvolta impietosa, quasi amasse esibire il lato più negativo del suo inconscio («Sono fatta di sangue scuro, penso, donna-bambina / capace di voglie nere, di tanto nero / odio»; «Stringo la penna, / graffio la carta, / il bianco lo mangio. // Poi sputo, taglio. Stritolo / e lacero. Il vuoto / consumo, consumo lo strazio. / Io ti ammazzo»; «Si gonfia la pancia, / fuggon le idee / e mi ritrovo qui sola / ubriaca di fiele»; «Che il mondo / scompaia. / Poi ,/ staremo tutti meglio»): quando invece la richiesta di amore, di pace, di amichevole e solidale comprensione risulta evidente a chi legge con l’imperiosità di un S.O.S. disperato. Esplicite infatti sono le dichiarazioni d’affetto ai familiari, agli amici, al destino stesso e al futuro che l’attende («E’ di calma che mi vorrei nutrire»; «La preghiera / è nata. / Ed è un verso: / ti prego, stammi accanto»). La domanda di protezione, di assoluzione e di leggerezza è disarmante, quasi infantile: «Non guardatemi / con severità, / sono sempre io», «Fammi beare di me stessa, dimmelo, / dimmelo che sono / bella, brava e buona. / Voglio i complimenti, i riconoscimenti, i premi e le premure per le / prime donne. / Non per forza il successo, ma un biscottino per cani…». Poesia come preghiera laica, come sentiero chiaro che conduca a una radura clemente nel bosco fitto, come conquista lieta di serenità. E’ ciò che Ginevra Lilli augura a se stessa, e che la voce tenue ma fidata dei versi le può far raggiungere: «Un giorno, / mi incontrerò / e sarà / l’incedere affaticato di un gigante di donna; i crucci / attorcigliati, riccioli / presi e infilati / uno ad uno / in una lunga collana rossa rossa. / Rosario di grande fortuna».

 

Prefazione a  Diario Ordinario, 2014