MARCO LODOLI, I FANNULLONI – EINAUDI, TORINO 1990

Di quanto la generazione dei nuovi narratori (da De Carlo, ad Albinati, a Fortunato) sia debitrice al cinema si è a lungo e autorevolmente dissertato: comunque, ce ne fosse voluta un’ulteriore conferma, ecco arrivare il nuovo romanzo breve di Marco Lodoli, I fannulloni.
Marco Lodoli si è imposto quattro anni fa all’attenzione del pubblico con il riuscito romanzo  Diario di un millennio che fugge; nell’89 ha poi sottolineato la sua maturità di narratore con i racconti di Grande raccordo; ora queste 80 pagine scarse pubblicate da Einaudi arrivano, forse un po’ premature, un po’ presuntuosamente poco rifinite (era Orazio che raccomandava «nonum prematur in annum»…) a dirci che Lodoli è ancora lì, sempre promessa sicura delle nostre lettere, ma non ancora scommessa scontata.
Lodoli fa muovere queste sue nuove creature di carta sullo sfondo del brulicante microcosmo di una Roma periferica, comparse di un’esistenza quotidiana difficile e poetica, presenze insieme innocenti e malfide, che sembrano dover scontare con una vita grama la sfida di voler esserci a ogni costo.
Il racconto è narrato in prima persona da un anziano piazzista di pietre – nemmeno preziose, ma comuni lapislazzuli e ametiste da offrire a turiste e parrucchiere – nobile solo di aspetto e di nome: Lorenzo Marchese, in realtà uomo di poche pretese come le pietre che smercia.

«Io sono uno qualunque, ecco, i miei pensieri e le mie paure sono semplici, i miei soldi contati, la mia casa piccola, i miei sogni balordi come i sogni di chi da sveglio litiga con la realtà nemica e un po’ perfida… Però la gente attorno mi vede alto, distinto, differente…Forse ho contribuito all’equivoco girando in mille Paesi senza fermarmi mai abbastanza per rassicurare gli altri che in fondo ero come loro, un po’ più di niente».

Lorenzo vive due grandi sogni nella vita: il primo, raccontato con mano davvero felice nel capitolo d’apertura, è l’incontro e l’amore per Caterina, una goffa e tenera gigantessa, a disagio nel mondo e nei sentimenti, che ricorda la figura femminile tracciata da un nostro troppo sottovalutato narratore, Giorgio Scerbanenco, in I milanesi non ammazzano il sabato. Con Caterina Lorenzo divide una vita di poche pretese e un enorme letto per dieci anni, prima che un infarto gliela rubi crudelmente tra l’indifferenza della gente, lasciandogli solo il rammarico di non averle dato abbastanza: «Mi vengono in mente tante parole che avrei potuto dirle e che per pigrizia ho taciuto. Che la amavo. Che era stupenda. Che la vita è comunque un bosco misterioso, e allora è bello traversarla con un gigante». Morta Caterina, tornato a un’esistenza rassegnata e vigliaccamente dignitosa, Lorenzo ottiene dalla vita un secondo grande regalo: l’incontro con un ragazzo nero, un ambulante pieno di gioia di vivere e fantasia, che lo trascina in una serie di avventure incredibili ed esaltanti.

«Gabèn è forte e allegro, ha le spalle larghe per sostenere mille difficoltà, i denti bianchi per piegare il ferro della vita, e soprattutto l’andatura leggera per galleggiare. Indossa certi camicioni ottimisti, comodi e colorati, e sandali da frate, quando non va a piedi nudi, incurante. Ha la mente larga, stellata».

Ecco allora che il compassato rappresentante di pietre, ormai settantenne, viene costretto a improvvisarsi allenatore e impresario di boxe, e a organizzare un match nel sottobosco delle palestre di periferia (la sfida coi guantoni tra Gabèn e il tarchiato avversario ricorda la stupenda scena sul ring di  Luci della città, con Chaplin che scappa e solo alla fine viene tramortito da un gancio impietoso). Esaltato da questa esperienza estranea alla banalità del quotidiano, Gabèn si trasforma in cantante jazz, esibendosi in una cantina di artisti falliti, e infine, divenuto giardiniere e autista tuttofare in una villa di miliardari, approfitta dell’assenza dei padroni per vivere con Lorenzo una settimana di sogno, tra Via Veneto e nights, smoking e Mercedes, belle donne e fannulloni.
In quest’ultima parte del volume le citazioni filmiche si sprecano: c’è un po’ tutto il nostro neorealismo, dalla scena del saccheggio del guardaroba padronale alla stampa di banconote straniere false. In particolare, Fellini docet e imperversa: da  I vitelloni alla Via Veneto de  La dolce vita, fino al recente  Ginger e Fred, con il suo torpedone pieno di larve umane, ectoplasmi di trapassati. Il finale, brumoso e sospeso nell’attesa impossibile di un’alba vendicatrice e riscattante sulla spiaggia di Ostia, ha ancora i campi lunghi e gli sfondi felliniani, con qualche memoria non peregrina di Nanni Moretti. E’ un peccato, però, che tra tanta sensibilità all’immagine (immaginoso e immaginifico), lo spessore narrativo dei personaggi si sfaldi, finisca per sfilacciarsi e diventare meno credibile, più retorico. Gabèn sparisce senza riuscire a diventare protagonista: macchietta priva di spessore reale, promessa di un carattere rimasto irrealizzato. Lorenzo continua la sua storia d’amore con Caterina, in sogno, nel ricordo o nella morte, non si capisce bene, in un finale volutamente vago ed etereo: «Il cielo era molto azzurro, la strada mi passava dentro, come uno sguardo sereno. Nel cuore il petto non mi batteva più, eppure da qualche parte, vicino, lontano, lo sentivo battere ancora».

 

«L’Arena», 8 febbraio 1991