Sapevo benissimo che a loro non piaceva che mi sedessi lì, sul muretto – in realtà poco più di un gradino – ad aspettare l’uscita degli operai. Avrebbero preferito che seguissi sorelle e cugini giù nei campi, a correre, a slittare dentro scatole di cartone per i pendii del prato. Ma dopo un po’ quel sudare e quell’urlare mi fiaccava, era del tutto sprecato, visto poi che nelle gare arrivavo quasi sempre seconda o terza, alta com’ero. Mi facevo vincere addirittura dalla sorella più piccola. Allora andavo a sedermi sul muretto, e mi cullavo dondolando la schiena appoggiata alla rete metallica, completamente arrugginita e qua e là bucata: che guai a graffiarcisi la pelle, veniva il tetano. Ogni tanto alzavo gli occhi alla finestra temendo di incontrare altri occhi accusatori – Cosa fai lì? –, ma a quell’ora le donne di casa erano in genere affaccendate intorno alla cucina, e comunque avevo giù pronta la risposta – Aspetto papà –, una specie di formula magica, capace di assolvere e di procurare benedizioni.

Mancava poco a mezzogiorno, spiavo l’enorme orologio della portineria caricato dall’enorme portinaio Stefani. Se lui mi vedeva ed era in buona, lo sapevo capace di chiamarmi dentro a schiacciare il bottone della sirena, a mezzogiorno in punto. La sirena della cartiera si sentiva in tutto il paese: che il mio dito producesse un tale prodigio, e la gente, su mio comando, smettesse il lavoro, preparasse la tavola, mi esaltava. Perciò speravo sempre che Stefani mi chiamasse anche se poi la mia sirena usciva stentata, fioca e brevissima. Il dito mi si spaventava presto: al primo alzarsi del mugolio, all’esplodere acuto del suono, io ritiravo la mano, timorosa di aver osato troppo. «Macca, macca», mi incoraggiava Stefani, per poi, sbuffando, maccare lui. Che sirena potente, invece, sapevano fare gli altri bambini. Mio cugino la faceva durare più di un minuto, e a volte la suonava anche di nascosto, fuori orario. Mezzogiorno produceva il miracolo di animare le strade, piene di tute blu e di sparsi grembiuli neri, di donne e uomini in bicicletta, che improvvisamente uscivano dai cancelli della fabbrica, chiamandosi, ridendo. Io sedevo lì a contemplarli, e li conoscevo tutti di faccia. A qualcuno avevamo anche affibbiato un soprannome: “ondina”, l’operaio dai capelli ricci; “placido”, quello che pedalava sbadigliando; e “sorriso”, la vecchia con un dente sì e uno no. Li guardavo contenta per loro, che avessero finito il turno, ma non mi sembravano felici come noi all’uscita dalla scuola. Non si precipitavano sulle loro bici, a volte si fermavano a discutere, a volte distribuivano volantini che subito andavo a recuperare, se qualcuno li buttava per terra. Li leggevo capendoci poco, ma istintivamente sentendo che avevano ragione, con quei NO!, quei MAI! e LOTTIAMO! Mah, erano forse così seri per quei fogli che mio padre accartocciava nervoso quando glieli mostravo: lui e loro spesso non andavano d’accordo.

Molti operai però non tornavano a casa a mangiare, rimanevano nel refettorio: erano quelli che abitavano lontano, o quelli che avevano il turno dopo pranzo. Quando era bel tempo, uscivano col pentolino, si sedevano sui gradini, sul muretto, anche sull’erba, e pranzavano lì. Io stavo immobile tra due di loro, parlavano sempre in dialetto, e non capivo. Ma guardavo quello che mangiavano, come facevano scattare la serratura dei loro tegami e ne uscivano profumi e sapori diversi, tutti mescolati con l’odore che avevano addosso, sulle mani: di ferro, di unto. Sarebbe piaciuto anche a me poter mangiare fuori, avere un pentolino così, bere dalla bottiglia. Mi sembrava godessero di più il cibo, masticando a bocca aperta come facevano.  Uno di loro, tra i più anziani, veniva a sedersi apposta vicino a me, e io lo temevo perché sapevo che inevitabilmente mi avrebbe parlato della sua bambina, confrontandola con me, con quello che sapevo e che – soprattutto – non sapevo. Mi chiedeva cosa stavamo facendo a scuola, mi interrogava sulle tabelline, concludendo sempre che la Mariarosa era più avanti. Era più alta, più robusta, coi capelli più lunghi e ondulati. Cercavo di sfuggirlo, il papà della Mariarosa, ma lui mi scovava mimetizzata tra gli operai, e mi raggiungeva ovunque. Per questo, aspettavo l’uscita di mio padre dalla fabbrica come una liberazione.

Lui era così diverso da loro. Così elegante. Aveva la camicia bianca, una cravatta, i polsini con preziosi “gemelli”, che ahi!, se li toccavamo, noi bambine: li sapeva chiudere solo mia madre. Aveva una cartella nera, di pelle. Usava un dopobarba che lasciava un buon profumo nella stanza, anch’io me lo mettevo dietro le orecchie. Mio papà era dirigente. Quando a scuola la maestra ci aveva chiesto, a tutte, il mestiere del padre, tra tante che avevano risposto impiegato, dottore, tecnico, colonnello, io sola avevo potuto vantarmi: “dirigente”. Come dire, uno che dirige, più che direttore, insomma il più importante. Infatti tutte si erano voltate a guardarmi, forse non sapendo nemmeno cosa significasse. Così io aggiungevo che era quasi come presidente, e la rima bastava a persuaderle. Non avrei mai potuto confessare, però, che era anche liberale; dirigente e liberale, nella mia grammatica l’aggettivo veniva a lordare il sostantivo. Forse i “moti liberali” del 1821 studiati a scuola mi avevano convinta dell’equazione liberale=rivoluzionario. Ma più probabilmente era stata la lezione di catechismo in cui la suora ci aveva illustrato i pericoli derivanti dal non votare la croce, pericoli che il vero cristiano deve sfuggire. Da allora, nelle mie preghiere serali supplicavo Dio che liberale non significasse almeno comunista, che mio padre venisse illuminato da una grazia particolare. Tutto il parentado, compresa la cameriera che era un po’ innamorata di mio papà, votava PLI influenzato da lui: ma ciò non mi era di conforto, anzi aumentava il mio tormento.

Quando mio papà dirigente usciva dai cancelli della fabbrica, mi sembrava che gli operai parlassero più piano. Qualcuno a volte lo fermava, andava a discutere. Io temevo che gli urlasse contro qualcosa, ero sempre un po’ sospesa.  Lui spesso non si accorgeva nemmeno che c’ero, non mi vedeva tra tutti quegli uomini: che, come loro, lo temevo un po’, ma diversamente da loro, lo aspettavo con un tremore tutto mio, con lo sguardo più fedele e indulgente del mondo. Ma lui faceva di corsa i tre gradini che lo separavano dall’ingresso di casa, pensieroso per chissà quali preoccupazioni. Io rimanevo male, lo guardavo sparire nel buio del portone, e mai avrei osato chiamarlo, trattenuta dal doppio timore di interrompere le sue meditazioni e di attirare su di me l’attenzione severa degli operai. Aspettavo qualche minuto, che nessuno pensasse più a lui: poi mi alzavo, e con calma, con simulata indifferenza, entravo anch’io in casa, senza riuscire però a raggiungerlo per le scale. Quando invece capitava che mi vedesse con la coda dell’occhio, che pendevo da un suo gesto come un cagnetto, allora quel gesto lo faceva. Alzava un po’ il braccio sinistro e muoveva le dita per invitarmi a dargli la mano. Rimaneva fermo, gli si muovevano solo le mascelle in un suo tipico vezzo di quando aveva fretta: ma mi incoraggiava a raggiungerlo. Scattavo velocissima, volavo: infilavo la mia mano piccola nella sua così grande, e salivo voltando le spalle ai miei amici operai. Non parlavamo, non lo guardavo in faccia, tutt’al più tenevo gli occhi sui suoi polsini, sui suoi gemelli. Lui non mi chiedeva mai le tabelline, perché era dirigente e aveva molto da fare. Era elegante, era bello, sapeva stringere le mascelle, muovere le dita, impartire ordini. Ma a me si stringeva il cuore, se mi raggiungeva alle spalle il succhiare degli operai nei loro cucchiai, o qualche rutto; sentivo come una vergogna e non sapevo perché.

(1984)

In Appuntamento con una mosca, Stamperia dell’Arancio, San Benedetto del Tronto 1991 e in Inverni e primavere (e-book) 2016