ALBERTO MORAVIA, IL VIAGGIO A ROMA – BOMPIANI, MILANO 1988

 

Ho passato le vacanze natalizie -complice un breve soggiorno a Roma, madre matrigna di Alberto Moravia e di tanti suoi romanzi- in compagnia del primo tomo delle sue Opere Complete, edito da Bompiani. Si trattava per me in parte di una rilettura (Gli indifferenti, Inverno di malato, Agostino…), ma per lo più di piacevolissime scoperte tardive: mi hanno incantato i racconti Delitto al circolo del tennis e L’ufficiale inglese, ho ammirato la struttura ben articolata e la scrittura asciutta de La romana. Mi sono avvicinata quindi all’ultimo successo di Moravia, Il viaggio a Roma, con una certa trepidazione, temendo di incorrere nuovamente nella delusione che mi avevano provocato le sue opere più recenti, timore che per fortuna è andato scomparendo nel corso della lettura. La vicenda narrata è quella di un viaggio che il giovane protagonista, Mario De Sio, fa a Roma per incontrarvi il padre, non più rivisto da una quindicina d’anni, da quando cioè era stato costretto, bambino, a seguire la madre a Parigi. “Viaggio” è, come sempre, termine duplice, di conoscenza e arricchimento esteriore e interiore insieme. Per Mario, in particolare, questo ritorno a Roma ha una funzione terapeutica: in termini psicanalitici, serve a liberarlo dal complesso edipico nutrito nei riguardi della madre, morta nel pieno di una giovinezza sensuale e sfrenata. Appena giunto nella capitale, dopo un piacevole viaggio aereo in compagnia di due francesi, madre e figlia (Jeanne, giovane vedova inappagata, e Alda, acerba e inquieta quattordicenne, destinate entrambe ad avere un ruolo risolutorio nella crisi esistenziale del protagonista), questi ritrova un padre complessato e istrione, per cui sente subito un’avversione molto simile al ribrezzo fisico. Con una tecnica narrativa che potrebbe sembrare ingenua e un po’ irritante da parte di un narratore consumato come lui, Moravia già dal secondo capitolo esibisce al lettore la chiave di interpretazione del romanzo: nella prima lunga conversazione col padre, precipitosa e pretestuosa, Mario viene a conoscenza di quanto aveva rimosso per quindici anni, e rivive quella che Freud ha definito “la scena primaria”, cui egli scopre di avere assistito da bambino, sorprendendo un animalesco accoppiamento della madre con l’amante. Il giovane ne è talmente scosso da essere portato a ricreare tale scena con tutte le donne che incontra, cercando puntigliosamente di recuperare tutti i particolari ambientali e fisici che riesce a ricostruire nella memoria. Jeanne, Alda, la scimmiesca donna di servizio Oringia, e infine la conturbante amica del padre Esmeralda, fungono tutte, più o meno consapevoli, da controfigure della madre, cui sono confrontate per contrasto o somiglianza. Il romanzo è quindi la storia di un incesto desiderato e mai consumato, una terapia analitica caparbiamente voluta ma destinata al fallimento a causa dell’eccessiva coscienza razionale del protagonista, che è insieme paziente e analista di se medesimo. Il sesso, come in tutti i romanzi moraviani, è ossessivamente presente nella vicenda, ma nello stesso tempo trattato con spietatezza e freddezza clinica: nessun rapporto fisico viene portato a termine, poiché ogni personaggio finisce per fuggire precipitosamente o per bloccarsi, reiterando una morbosa esibizione di genitali vogliosi e insoddisfatti. Oltre al sesso, ritroviamo in questo romanzo tanti altri tipici temi di Moravia: l’età di Mario, in bilico tra adolescenza e giovinezza, tra una virtuale disponibilità ad aderire a qualsiasi evento e una sostanziale estraneità al mondo che lo circonda, ci ricorda altri caratteri dello scrittore: Agostino, Luca, Girolamo, Michele. Il fatto che Mario si consideri poeta, ma non scriva poesie in quanto tutte le poesie che vorrebbe scrivere sono già state scritte da Apollinaire; il fatto, insomma, che egli sia un poeta fallito, lo accosta alla galleria di altri intellettuali frustrati che Moravia ha sempre scelto come protagonisti dei suoi romanzi. La Roma agiata e borghese, che fa da sfondo a questa storia, con i suoi giardini spelacchiati, le signorili palazzine anni ’20, gli interni luminosi con ampie terrazze, è la stessa Roma complice e ruffiana di tante altre vicende. Il concetto di famiglia come istituzione-rifugio da rispettare e salvaguardare esteriormente, ma in realtà crogiolo di inganni, simulazioni, interessi inconfessabili e altrettanto inconfessabili vizi o sopraffazioni, è anch’esso un motivo riconoscibile di Moravia. Ancora, le figure femminili sempre ambigue, sempre carnali al limite di ogni fisicità, figure dominanti rispetto allo scialbo mondo maschile, ripercorrono tutto il filo dei personaggi (madri, amanti, sorelle) che abbiamo conosciuto dagli indifferenti in poi, al punto che l’acerbità scontrosa e aggressiva della protagonista più giovane, Alda, e l’opulenza felliniana esibita da Esmeralda ricalcano i personaggi de La vita interiore in modo impressionante. Dà un po’ fastidio, in questo Viaggio a Roma, l’insistito ricorso a situazioni da manuale di psicanalisi, per cui ogni avvenimento e ogni pulsione sono freudianamente interpretabili e, purtroppo, freudianamente ineccepibili: ma anche questo, lo sappiamo, è ormai diventato un tic – più che un topos- in Moravia, e glielo perdoniamo volentieri, in considerazione del fatto che lui, almeno, è un grande narratore. Altri, che magari vendono di più, si riducono ai loro tic, senza aggiungere molto.

 

«Agorà» (Svizzera), 22 febbraio 1989