RYU MURAKAMI, BLU QUASI TRASPARENTE – RIZZOLI, MILANO 1993

Ciò che sappiamo dei giapponesi si riduce forse a una serie di luoghi comuni che fanno il paio con quanto si dice nel mondo di noi italiani. Piccoli, dai capelli lisci e neri, dalle gambe storte; lavoratori fanatici, propensi allo spionaggio industriale e al turismo intruppato, potenzialmente inclini al suicidio. Sospettiamo in loro faziosi accanimenti e tragiche esaltazioni, di cui ci riconosciamo, noi latini, paciosamente incapaci; li reputiamo più accaniti di noi in tutto, nella finanza, nella tecnica, persino nell’arte. Chi ama Jukio Mishima sa quali livelli di drammatica morbosità, mescolata a meditata epicità, sappia arrivare la loro letteratura. Spietati nell’autoanalisi (e cosa ci si potrebbe aspettare da un popolo che usa cinque sillabe per scrivere il pronome “io”? Wa-ta-ku-shi-wa!), paiono altrettanto inesorabili nella rigidezza verso l’altro. Ma ecco che può bastare un romanzo – provocatorio, inatteso e veloce come un pugno a tradimento – a ribaltare tutti i nostri pregiudizi, a metterci di fronte a un universo sconosciuto e insospettabile, in qualche modo addirittura temibile. Blu quasi trasparente  è l’opera prima di Ryu Murakami, tradotta e pubblicata da Rizzoli a vent’anni dalla sua contestata apparizione, quando il giovanissimo e trasgressivo autore era stato insignito del prestigioso premio Akutagawa, inneggiante al romanzo nuovo e scandaloso, polemicamente ostile all’immagine ufficiale e patinata dell’Impero Nipponico.
Protagonista del libro è un gruppo di giovani di cui si sa poco o niente: li si può supporre studenti, impiegati o artisti, anche se nella vicenda non si parla né di università, né di uffici, né di mostre. I giovani – tra i quali il narratore ha lo stesso nome dell’autore, Ryu, quasi ad autorizzare a ritenere il racconto autobiografico-, sembrano dediti a poche, ripetitive, ossessive attività: droga, sesso, musica. Droga a fiumi, in siringhe passate di vena in vena, o in pillole sciolte in misture micidiali, incubi e allucinazioni percorsi dall’autore in uno stravolto delirio di abbagli visivi e sonori. Sesso meccanico e violento, per lo più di gruppo e angoscioso, descritto con analitica asetticità e un’attenzione maniacale a umori, sudori e liquami vari, con una particolare predilezione per il vomito, in ogni sua forma e variante. Musica sparata a tutto volume da stereo o stadi, sottofondo indispensabile a qualsiasi vicenda riguardi la generazione viziata e incolpevole del «rock and fuck»: J.Hendrix, Led Zeppelin, Door, Rolling Stones costituiscono il leit motiv di queste pagine, e forse il solo riferimento temporale, l’unico ancoraggio ai corrosivi anni ’70 in cui sono ambientate. Il romanzo è infatti abissalmente lontano da ogni storicizzazione, da ogni ambientazione geografica. E’ un Giappone privo di qualsiasi eredità orientale – di pensiero, di immagine o di civiltà – e invece inaspettatamente vicino ai sobborghi delle grandi metropoli occidentali. I suoi protagonisti appartengono a una realtà multietnica (coreani e africani, americani e irlandesi convivono senza differenziarsi in niente) di auto-emarginazione, di polemica e disperata contrapposizione a una cultura non più riconosciuta come tale. Avevamo, vent’anni fa, visto film sullo stesso argomento (Trash, ad esempio, che aveva fatto epoca), letto libri underground di cui ci è rimasto poco, se non vaghe sensazioni di malessere, e la constatazione che oggi tutto questo è stato spazzato via, non è approdato a nulla. E ora, Blu quasi trasparente arriva a insinuarci il sospetto che se il nuovo Oriente è così, se la giovane letteratura giapponese si è tanto e tristemente omogeneizzata, meglio Mishima, Tanizaki, Kawabata: sono più immaginosi, più sensuali, più lirici del documentarista Murakami e dei suoi spietati reportages.

 

«L’Arena», 12 agosto 1993