5 domande a Leda Palma
LEDA PALMA: ATTRICE, REGISTA, POETA

 

Leda Palma ci parla del suo rapporto con la parola scritta e recitata, con la lingua popolare e colta, con i diversi ambienti in cui è cresciuta, si è formata intellettualmente e ha operato artisticamente.

  • In quale realtà familiare e ambientale è cresciuta e si è formata culturalmente?

Famiglia piccolissimo-borghese di 5 persone (genitori e tre sorelle) che arrancava con un solo stipendio, quello del padre impiegato comunale, in un paese contadino, di poche anime, dove l’orto era sudore e trepidazione, l’italiano una lingua da imparare a scuola. Borgo, parrocchia, lo spazio domestico. “Tre figlie, tre maestre”, sosteneva mio padre, che ha dato tutto se stesso perché potessimo diplomarci. L’università un sogno, troppe tasse; o lavori e studi, altrimenti fai la maestra in un paesino qualunque di montagna. Per le donne l’unica via d’uscita dalla casa oltre al matrimonio. Questa prospettiva non mi si addiceva, io amavo il teatro, a scuola mi chiamavano sempre a leggere poesie; da dove scaturiva questa passione, mistero. Forte il desiderio di evadere, di fuggire da quella realtà sonnolenta e arcaica. Per fortuna a Udine esisteva un nutrito e preparato gruppo teatrale, riuscii a infilarmici e lì mise radici forti e stabili la mia professione futura, che divise il mio paese in due: metà mi bollò, l’altra metà rimase a guardare. Primo contratto con il Teatro Stabile di Bolzano ovvero L’Ultimo Carro di Tespi, diretto da Fantasio Piccoli. Mi addentrai nella poesia durante una lettura al premio Cittadella dove conobbi e diedero inizio al mio “corpo a corpo” con essa, Luciano Erba, Sergio Solmi, Bino Rebellato e altri.

  • Cosa del suo Friuli nativo è rimasto nella sua attività lavorativa a Roma e in che modo riesce a recuperare la linfa vitale che ha nutrito la sua giovinezza quando torna al suo paese?

La lingua! Una volta lontana dal mio Friuli ho iniziato ad amare il friulano, quel friulano di cui mi vergognavo quando, per le scuole medie e superiori, ero costretta a percorrere in bicicletta quei chilometri che separavano Udine, la città, da un mondo contadino guardato con diffidenza e superiorità . A Udine si parlava l’italiano o l’udinese che io detestavo. Così il friulano rimaneva circoscritto alla famiglia e al paese. Oltrepassati i confini si trasformava all’istante in italiano, a volte storpiato.
A Roma mi impegnai allora a moltiplicare in teatro e in radio le letture di Pasolini, Leonardo Zanier, Bartolini, Giacomini, tutte rigorosamente in friulano e io ero l’unica a conoscerlo alla perfezione. Poi naturalmente Padre Turoldo di cui ricordo volentieri una lettura scenica insieme ad Achille Millo. Scrissi anche per la radio uno sceneggiato e un radiodramma dedicati al Friuli.
I miei numerosi ritorni in Friuli erano ritorni soprattutto alla natura, ai campi, agli alberi, ai torrenti, alle albe e ai tramonti che come lampi mi folgoravano e ancora oggi mi trascinano, per quel che ne è rimasto, in un mondo di silenzio, di purezza, un mondo che si va via via perdendo, con cui stabilire una relazione sensoriale e profondamente spirituale. Il paesaggio è un essere vivo.

  • Le sue esperienze teatrali quanto hanno inciso sulla sua produzione letteraria e viceversa?

Al teatro ho dedicato la vita, è la mia passione, ma fra teatro e poesia non vedo distinzioni così nette. Nel teatro le parole sono in azione. Posso vederle come profumo, colore, come entrata, uscita, come fatto fisico. Così la poesia, l’etimologia greca di poesia è – azione. Infatti in poesia la parola deve essere densa, contenere azione appunto. Si sente dire spesso: questa è una cosa poetica, non c’entra niente con la realtà mentre la poesia è quanto di più concreto ci possa essere. In teatro prendo a prestito parole d’altri, conflitti d’altri. In poesia le parole sono mie, è la mia coscienza a discorrere. Teatro e poesia sono momenti di verità e tutti e due contribuiscono a uno scavo interiore, a scandagliare i propri abissi. E’ un tornare a casa dentro di sé, dentro la propria interiorità. Cercare un punto di contatto con il proprio sé, con il divino che è in noi. Comunque si alimentano a vicenda.

  • Quali sono i poeti, classici o contemporanei, che più influenzano la sua scrittura in versi?

Naturalmente cerco di non farmi influenzare ma va da sé che certi poeti li abbiamo dentro, ce li portiamo ovunque, li respiriamo. Da ragazzina ero perdutamente innamorata di Leopardi e lo sono ancora. Ma ne ho aggiunti altri come Ungaretti, Quasimodo e ai nostri giorni o quasi: Marina Cvetaeva, Dickinson, Amelia Rosselli, Ripellino…

  • A quale personaggio che ha interpretato sul palcoscenico o in televisione si sente più vicina e ritiene di dover esprimere più riconoscenza?

In un primo tempo ho pensato a Giulia, la protagonista giovane di Mercadet, l’affarista di Balzac che ho interpretato a teatro insieme a Tino Buazzelli, poi, riflettendo, ho scelto un insieme di personaggi che ho raccolto sotto il titolo ORE 9 DEL SILENZIO. L’ora del terremoto in Friuli 40 anni fa. Questo monologo l’ho recitato nel ventennale di questo tremendo sisma e tutti i personaggi da me interpretati erano reali, vivi e morti, donne e uomini, tutti accomunati da questo orrore senza fine. Spunti per un richiamo al dialogo, a una comune riflessione sui valori etici e spirituali, per ritrovare un senso di umanità e di universale solidarietà, di giustizia sociale, rispetto dei diritti e dei doveri nei confronti di tutte le creature. Questa la condizione per continuare a parlare di umanità.

 

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5 settembre 2016