MADDALENA STABILE PERRENOUD, ALTRE ATTESE – CREA EDITORIAL, 1990
ELIO GIANCOTTI, LA VITA OLTRE IL MITO – LUIGI PELLEGRINI  – 1990

 

Secondo l’ultima indagine dell’Istat, numerosissimi sono gli italiani che scrivono poesie (uno su cinque, pare); più al centro-nord che al sud, più uomini che donne (queste ultime, se coniugate, si firmano sempre con due cognomi…). La percentuale dei lettori di poesia è invece risibile, vergognosamente bassa: Zanzotto, dei suoi libri pubblicati nella prestigiosa collana Lo specchio di Mondadori, non riesce a vendere duemila copie. Questo perché il linguaggio poetico è arrivato a una densità espressiva e a una difficoltà interpretativa tali, che il lettore medio italiano – già poco propenso a grosse fatiche intellettuali – tende a evitare di lasciarsi mettere in crisi, rinuncia a priori ad approfondire, a svecchiare le sue conoscenze letterarie. Si può allora pensare che il pubblico della poesia sia costituito dai poeti stessi, ma anche questo non è sempre vero; mentre è indubbio che a un certo -basso- livello di produzione letteraria chi scrive versi legge solo quelli che lui stesso produce, non avvertendo minimamente l’esigenza, umile ma doverosa, di coltivarsi, perché no?, di “studiare” poesia, così come un medico studia anatomia, o un programmatore si aggiorna su riviste e pubblicazioni specializzate. A questo mi viene da pensare quando ricevo in omaggio volumi di versi, con la preghiera, talvolta imperiosa e assillante, di una recensione, che ovviamente deve essere SEMPRE positiva ed esaltante, pena odio eterno e strali feroci. Allora leggo, annoto, postillo, rileggo cercando di trovare tra le pagine tutti i preziosismi letterari e le recondite armonie promesse da prefatori entusiasti e un po’ troppo generosi.. Scusate la lunga digressione, e prendetela come sfogo di una tizia che ama molto leggere poesia, e a cui piacerebbe anche scrivere molto e bene di poesia, e non sempre ci riesce, certo per sua personale insensibilità verso la genuina e strabordante vena poetica di chi scrive… E arriviamo a parlare di due volumi di versi appena pubblicati da scrittori che già si sono messi in luce nell’ambito dell’emigrazione: Maddalena Stabile Perrenoud e Elio Giancotti, con Altre attese e La vita oltre il mito. La Stabile Perrenoud, calabrese ma con una storia che ha conosciuto diversi orizzonti, vive, lavora e scrive a Neuchâtel, e ha con la poesia un rapporto intenso, quasi fisico e sensuale, di donazione totale, di confessione irrefrenabile. Le sue sono poesie con una forte sensibilità pittorica e un’ altrettanto forte sensibilità religiosa, rivolta verso un dio creatore onnipresente nella bellezza del creato. Si tratta di visioni, sogni, preghiere permeate di gratitudine stupefatta nei riguardi dell’esistente, del miracolo di un mondo sempre uguale e sempre nuovo nello stesso tempo, dietro cui è difficile decifrare il silenzio divino: «Nulla resta / il presente ci sfida immobile. // Tu che domini il tempo / vivi e non esisti…»; «Lontana come una stella, / mi guida questo pianto, / questo gridare dell’anima, / un’ultima preghiera / al Dio degli uomini»; «Aspetto che mi parli / che strappi questo velo, / il sigillo / che chiude la porta della mente». Ci sono immagini icastiche, assolutamente giuste nel far scattare quel quid che definiamo poesia, soprattutto negli attacchi delle singole composizioni: «Sarà sera fra poco, / gli alberi immobili / l’attendono. // Ho vinto l’impulso / di cercare casa , / d’accostarmi come un lupo solitario, / per carpire / e rassicurarmi in un’immagine»; «L’autunno / è la guerra degli alberi. // La sconfitta», ma curiosamente sembra che l’autrice sia tentata dalla sovrabbondanza e dalla ripetizione, preferisca il diluire che il condensare, la tradizione della retorica all’originalità più scabra, dimenticando che la poesia è data dall’intensità, e mai dalla banalità. E così leggiamo espressioni datate che finiscono per danneggiare il libro nel suo complesso: «paradiso di luce; lacrime di madreperla; l’ultimo raggio di sole al tramonto; spighe di grano / ondeggiano / al vento della passione», e altre ridondanti immagini del genere che vanificano il timbro più personale e dotato della Stabile Perrenoud.
Elio Giancotti, lui pure calabrese, professore nei Corsi di Lingua e Cultura Italiana a Berna, tre anni fa ha pubblicato un romanzo ambientato nella Svizzera inquieta della terza generazione, a cui nuoceva forse l’eccesso di storie e situazioni, di elucubrazioni socio-psicologiche e di bozzetti narrativi. Troppe cose con troppe parole, insomma, per un libro solo, e non abbastanza sorvegliato stilisticamente. Quella prima impressione di allora mi viene ora consolidata da questi versi, stranamente retrò con una robusta impostazione classicheggiante, quasi che le letture dell’autore si siano fermate a Vincenzo Monti, o a Prati e al tardoromanticismo: «La tua grazia, Velia / m’inebriò di gioia celeste. / Sfiorandomi la tua mano / ch’ora invano cerco / stringer nel sonno / sentii fendermi il petto»; «Nella lubrica china del tempo / s’è lacerato l’amoroso idillio»; con curiose rimembranze da Michelangelo («È preferibil cosa / l’esser di sasso») o da Foscolo («Or son vent’anni, Calabria mia, / adolescente ti lasciai»). Severi settenari iniziali («O fervide colline, / dai limpidi orizzonti») si sfilacciano presto in un’assoluta dimenticanza e noncuranza di ritmi e clausole metriche; le frequenti anastrofi («Ivi i nati figli; I proibiti frutti; dalle feraci valli; il mio ardente petto») fanno il verso, non si capisce se ironicamente o meno, al traduttor dei traduttor d’Omero: «E rubiamo teneri afflati a zefiro / e calami d’oro al sole / e scriviamo messaggi ineffabili / che il complice Favonio apporta». Eppure anche Giancotti ha un timbro suo, personale e piacevole, che trascura o non mette in evidenza quanto dovrebbe, preferendogli l’elegia e la retorica: è nella parte finale del volume che l’autore si riscatta, nelle  Satire che recuperano con finezza e ironia il tono di certe epistole in versi del latino imperiale (da Orazio a Marziale a Giovenale, ma senza dimenticare Catullo); e fustigando i vizi dei più, manie e memorabilia di amici e nemici, assume toni scherzosi e simpaticamente denigratori, tenendo in serbo l’aculeus finale («tante botte e senza retribuzione / mi domando se sei un duro o un coglione») nella migliore delle tradizioni classiche.

 

«Agorà» (Svizzera), 20 marzo 1991