GIANCARLO PONTIGGIA, IL MOTO DELLE COSE – MONDADORI, MILANO 2017

La “poesia di pensiero” di Giancarlo Pontiggia (come viene definita nella nota del risvolto di copertina), sempre molto apprezzata per il suo classicismo raffinato e severo, per la particolarità della sua voce aristocraticamente lontana dalle mode, trova in questo libro mondadoriano nuovi accenti, forse più omologati agli indirizzi stilistici e tematici oggi in atto. Il moto delle cose è un testo composito e ansante, scosso da continui trasalimenti che però vengono controllati, bloccati sul nascere, quasi che l’autore si sia imposto di non cedere al flusso di un trasporto emotivo troppo coinvolgente o irrazionale. Le sezioni, spesso costituite da un solo componimento, si susseguono veloci, scandite da titoli definitori, esemplificativi, come a stabilire per ciascuna di esse un argine argomentativo. Le poesie sono per lo più brevi, epigrammatiche, frammentarie, talvolta caratterizzate da una sentenziosità gnomica: «Chi s’incammina, / già pensa al suo ritorno. / Ma chi resta, // salpa ogni giorno», «Si sforzano, le cose, / di risalire la corrente, ma un dopo / incessante le sospinge, di era // in era».

“Le cose” del titolo (“la roba”, la materia) assediano il poeta, più concrete e imperiture di lui, fragile invece nella sua caducità, nel senso oppressivo di una fine che sente minacciosamente vicina e ineluttabile: «E vedi che durare possono / le cose che non hanno vita, / e tu muori // … e in queste stanze / dove tante ore hai / dormito, altri / ci dormiranno: e così poco / è la vita, // che un verso, un muro, un letto / sono più lunghi di te, // erano prima, e sono dopo / di te». Il futuro è inesistente, il passato ha le sembianze di un incubo: «Vengo a voi, ombre / di Ade, e alle vostre / case profonde», «vedi // ciò che sei, in te, dentro di te, ma non in te, in altro / moltiplicato in fronde / dolorose, baluginanti di vite, o ex-vite, remote, sinistre», e tutta l’esistenza rimane, dal nascere al morire, misteriosa e ingiustificata: «Restano solo metafore cieche, / inesplicabili – barbagli / di gemme / nella roccia della mente».

La riflessione di Giancarlo Pontiggia è rivolta allo scorrere crudele del tempo, in un’entropia distruttiva che non lascia scampo. Lo si deduce non solo dalle immagini che fanno da sfondo ai versi (sassi, dirupi, piogge, acque turbinose), ma anche dalla scelta insistita dei verbi, che indicano un continuo cadere, e un cedere alla violenza – non tanto umana quanto metereologica, cosmica, sovrannaturale –, in un paesaggio terremotato, inondato, stravolto da cataclismi naturali: “inabissarsi, disgregarsi, precipitare, franare, affondare, sgretolarsi, incrinarsi, annaspare”. I verbi sono perlopiù coniugati impersonalmente, come a evitare un’appropriazione soggettiva, suggerendo invece una generalizzazione che riguarda collettivamente l’umanità intera: “s’ingorga, s’infima, s’incavedia, s’imprime, s’inabissa, si avviluppa, si imbeve, si acquatta, si impaluda, s’impasta, s’indedala, si sgretola, s’infoschia, s’intana”.

Il gusto per il termine ricercato, così tipico nel poetare di Pontiggia, si rivela anche in questo libro soprattutto nell’attento utilizzo dell’aggettivazione, che predilige attributi desueti: ferrigno, rabido, algido, fiammeo, tenebricoso, infrazionabile… Il poeta è trascinato dalla natura e dalla storia in un turbine di annientamento, e con lui ogni fibra dell’universo e ogni creatura vivente, dall’origine della specie ad oggi: il reiterarsi delle congiunzioni coordinative, all’inizio o nel corpo dei testi (E… e… e…) sembra implorare un rapporto, una connessione, una solidarietà con l’altro da sé, che metta al riparo dal «respiro possente» del mondo, dal suo «operoso, micidiale // moto».

© Riproduzione riservata           «L’Indice dei Libri del Mese» n. 1, 2018