IOAN ES. POP, UN GIORNO CI SVEGLIAMO VIVI – VALIGIE ROSSE, LIVORNO 2016

La Romania è terra di poeti: due tra i maggiori del ‘900, Paul Celan e Nina Cassian, vi sono nati e ne sono stati presto esiliati. Terra di grandi sofferenze e povertà, anche, e di turbinose, tragiche vicende politiche. In una cittadina dell’estremo nord della Transilvania è nato nel 1958 il poeta Ioan Es. Pop, trasferitosi poi a Bucarest nel 1989, nell’anno della fine della dittatura ceauşista. Operaio non qualificato nonostante la laurea in lettere, vissuto per anni in situazioni di estrema precarietà economica, ha nutrito la sua scrittura di desolate biografie collettive “dal sottosuolo”, sullo sfondo di un paesaggio urbano avvilente e dimesso. Poesie pluripremiate e tradotte, le sue, di cui oggi l’editore Valigie Rosse offre una stimolante antologia.

L’umanità raccontata da Pop è composta da derelitti, persone svuotate di qualsiasi identità e prive di prospettive, funamboli sospesi in uno spazio sgombro di passato e di futuro, il cui unico presente è rappresentato dall’abbrutimento della fatica, della miseria, dell’alcol sanitario allungato con acqua. Hanno anche dei nomi, queste larve di uomini da lui descritti (Mircea, Hansi, Sebastian, Zoli), ma sono in realtà manichini privi di anima, ombre intercambiabili accomunate solo dallo sfruttamento e dalla povertà: «sempre me ne vado in giro come avvolto in qualcun altro», «qui la vita si beve e la morte si dimentica», «non conta più nulla se io sono io o io», «per cosa dovrei svegliarmi e con cosa rimarrei / se mi svegliassi del tutto».

C’è più abbandono che solitudine, più rassegnazione che rabbia, in questo Lumpenproletariat narrato da Pop; nessuna rivendicazione sociale o politica, nessuna attività fisica, lavorativa, amatoria, nell’apatia totale determinata dall’assenza di speranze e di obiettivi: «so che domani non sarà altro domani che / il solito oggi e oggi e oggi e oggi tutto il tempo / e oggi per oggi non si può fare granché». Nemmeno la parola può salvare, e infatti esce da questi versi smozzicata, balbettante, iterata in cantilene infantili, incapace di effettiva comunicazione: non c’è bestemmia né imprecazione «nel vicolo cieco del nostro parlare», solo la pura constatazione di un’infelicità senza desideri, ridotta ad articolarsi in interiezioni elementari: «mircea ha detto eh! e tutti hanno detto eh! io ho detto eh!». Si abita in condomini fatiscenti, in stanze murate metafora dell’incomunicabilità col mondo esterno, prive di porte e finestre («invano ti affannerai a cercare l’uscita l’entrata l’uscita»), con pareti grattate dalle unghie come nelle carceri, e stufe che fanno più fumo che fuoco. Perché uscire dall’inferno, allora, se fuori c’è solo «sterpaglie e acqua», fango e pozzanghere, topi e malattie, neanche mezzo autobus che passi, e nemmeno un dio che prometta riscatto o pietà? «Nessuno avrà tanto niente come noi».

Il volume, il cui titolo appare disperatamente ironico e profetico (Un giorno ci svegliamo vivi), con traduzione e postfazione di Clara Mitola, è introdotto da un’empatica presentazione di Andrea Inglese.

 

«Poesia» n. 327, giugno 2017