PAUL RICOEUR, KIERKEGAARD – MORCELLIANA, BRESIA 1995

In queste due conferenze tenute nel 1963, Paul Ricoeur si confronta con uno dei suoi filosofi di riferimento, da lui definito “un’eccezione… fuori dalla filosofia e dalla teologia… coincidenza inaudita di ironia, malinconia, purezza del cuore, retorica corrosiva…”. A questo inedito ritratto di Kierkegaard ritiene di dover aggiungere “una punta di buffoneria, ed infine coronare il tutto con l’identità di estetismo religioso e di martirio”. Nessuna sottovalutazione, ovviamente, del pensatore danese: semmai una rivendicazione ammirata della sua originalità assolutamente lontana dagli schemi e dalla tradizione filosofica classica. Assurdo definire quella kierkegaardiana una non-filosofia, semmai – suggerisce Ricoeur – una “iper-filosofia”, di cui si devono accettare anche “gli aspetti propriamente irrazionali”, al punto che ci si dovrebbe interrogare su “come sia possibile filosofare dopo Kierkegaard”. I due saggi esaminati da Ricoeur sono Il concetto dell’angoscia e La malattia mortale, del 1844 e del 1849: di entrambi viene analizzato il confrontarsi del filosofo danese con il problema del male, inteso come questione centrale (“assurda, scandalosa, senza diritto e senza ragione”) del rapporto tra l’uomo e Dio. Il cristianesimo di Kierkegaard era più un cristianesimo della croce che della Pasqua, della sofferenza e della colpa più che del perdono e della gloria: in esso il peso del peccato, dell’angoscia e della disperazione assunse sempre un rilievo fondamentale. E in questi due scritti lo affrontò non tanto “da metafisico, o da moralista, o da predicatore”: quanto invece, secondo Ricoeur, da un punto di vista psicologico. “Il peccato non è il contrario della virtù, ma della fede… è il nostro modo ordinario di essere davanti a Dio”, e si esprime nella sua forma estrema come disperazione, imperdonabile malattia mortale che rispecchia “la mancanza d’infinito, la ristrettezza di una vita mediocre, la perdita d’orizzonte”.

IBS, 5 aprile 2014