FRANCO RIVA, LA DOMANDA DI CAINO – CASTELVECCHI, ROMA 2016

Il volume La domanda di Caino del filosofo Franco Riva ha come sottotitolo “Male, Perdono, Fraternità”: tre concetti che coesistono (stridendo, cozzando tra di loro, attraendosi e respingendosi insieme) nella risposta interrogativa, spavalda e spaventata come un’alzata di spalle, che Caino dà al Signore dopo aver ucciso Abele: «Sono forse il custode di mio fratello?»

Tre termini che corrispondono alle tre sezioni in cui si ripartisce la riflessione dell’autore, docente di Etica all’Università Cattolica di Milano, che qui approfondisce l’argomento valendosi di contributi letterari (Cervantes, Dostoevskij e la Bibbia) e filosofici (Arendt, Buber, Derrida, Jankélévitch, Jonas, Kierkegaard, Lévinas, Marcel, Ricoeur, Schmitt). Il Male, quindi, con la M maiuscola, con le questioni all’apparenza irrisolvibili che si porta dietro da millenni: cos’è, perché esiste, da dove viene, se può essere giustificato, come vincerlo. Franco Riva, cercando di darne una definizione, confessa l’impossibilità di comprenderne in maniera definitiva l’essenza e i confini, sia che esso sia un accidente fisico o una mancanza spirituale, sia che dipenda dal caso o da volontà umana. Il male fatto e il male subito, indicano solamente una fragilità della creatura? («La fragilità è tipica, connaturale all’esistenza. Non si pensa davvero alla vita senza pensare a ciò che la smentisce, alla presenza del male: a una minaccia che intesse la vita come il rovescio della stessa medaglia»). Oppure, secondo quanto riteneva Socrate, è solo ignoranza, difetto di conoscenza, omissione, inconsapevolezza? Come spiegare il male assoluto, la morte, la malattia, la sofferenza dell’innocente, lo sterminio bellico, le catastrofi naturali, il terrorismo? Fatalità, destino, crudeltà umana, indifferenza divina? «Al male manca sempre una risposta». Eppure, esso non ci appare mai come definitivo: rimane comunque in chi lo subisce uno scampolo di speranza, di non resa, di resistenza. Va oltrepassato, provando a parteciparlo con gli altri, esigendo solidarietà, facendo fronte comune con chi soffre: soprattutto rifiutandogli qualsiasi giustificazione finale.

Nella seconda parte del volume, l’autore affronta il tema, altrettanto spinoso e paradossale, del perdono, il cui valore «è tanto più forte quanto più sembra imperdonabile o non scusabile il male ricevuto, il torto fatto». Perdonare gli altri, perdonare se stessi. Perdonare (che non significa dimenticare, cancellare la memoria!) a livello individuale e collettivo, emotivo e razionale. Riva si chiede se sia possibile e se si debba: perché ci sono crimini irrimediabili e irreversibili (Auschwitz, la Shoah, Hiroshima, le torture, le guerre…) che sono legalmente imperscrittibili, che vanno perseguiti penalmente e condannati. E ci sono torti più personali (il tradimento di un amore o di un’amicizia, una non mantenuta) che rimane difficile superare; farlo con facilità o immediatezza rivelerebbe compiacenza e narcisismo (“vedi come sono buono…”) e ridurrebbe l’offesa «a un semplice punto di vista sempre relativo, sempre aggirabile, sempre correggibile in un’ottica superiore». Ma nella parola “perdono” riecheggia la parola “dono”: qualcosa di gratuito ed eccedente, di asimmetrico e radicale, che solo la vittima può offrire, senza reciprocità. Nella sua mitezza risulta implacabile a chi ha usato violenza, in qualche modo inchiodandolo alla sua colpa.

La terza parte del libro di Franco Riva esplora il significato della fraternità. Se «il perdono come il male si fanno nella comunità degli uomini», è ad essa che si deve guardare per meglio definirli e comprenderli: e forse ancora di più a quella comunità strettissima e particolare rappresentata dalla familiarità, dalla fratellanza. «Le fraternità della storia sono spesso intrise di rivalità, di violenza, di esclusione, di preferenza, di fratricidio, non sono mai del tutto ciò cui aspirano e ciò che dicono di essere». Caino e Abele, Romolo e Remo: omicidi fraterni all’origine della fondazione di una città sembrano voler significare che non esiste convivenza senza violenza, o che la fraternità di sangue non è vera fraternità. Fratelli-coltelli, come suggerisce il proverbio, fratelli nemici. «Il nemico è chi mi mette in discussione», l’altro che mi si oppone. Allora la domanda di Caino al Signore: «Sono forse il custode di mio fratello?» diventa la domanda delle domande, se per “custode” si intende “responsabile”. Siamo tutti responsabili dell’altro, come afferma Dostoevskij ne I fratelli Karamazov: «Ciascuno di noi è colpevole di tutto e per tutti sulla Terra». Nella frase di Caino non c’è solo insolenza: il suo dire “io” rivela la responsabilità di una fraternità, riconosciuta anche se rinnegata, e affidata a un chiedere che rimane aperto e rimanda a un “fuori” di sé, a una tensione in cui si affrontano male e perdono, colpa e giustizia.

 

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www.sololibri.net/La-domanda-di-Caino-Franco-Riva.html            26 dicembre 2016