SCIPIONE, CARTE SEGRETE – EINAUDI, TORINO 1997

Con lo pseudonimo di Scipione, Gino Bonichi (Macerata, 25 febbraio 1904Arco, 9 novembre 1933), si fece conoscere come uno dei più importanti pittori della Scuola Romana (detta anche di Via Cavour), movimento espressionista che si opponeva al conservatorismo, al neoclassicismo e alla retorica fascista dominanti tra gli anni ’20 e ’30, rappresentati principalmente dal gruppo Novecento.Trasferitosi a Roma dalle Marche ancora bambino, nell’adolescenza si ammalò di tubercolosi, per cui rimase ricoverato in sanatorio fino al 1924. In quell’anno, iscrittosi all’Accademia di Belle Arti, conobbe Mario Mafai, con cui strinse un fruttuoso sodalizio professionale e di amicizia. Insieme a lui, a Renato Marino Mazzacurati e ad Antonietta Raphael, fondò quindi nel 1928 la corrente della Scuola Romana, di cui oggi troviamo ampia e documentata rappresentazione al secondo piano del Casino Nobile del Museo di Villa Torlonia. La vena fantastica e visionaria della pittura di Scipione si espresse soprattutto in noti capolavori, quali il Risveglio della Bionda Sirena (1929) e il Ritratto del Cardinale Decano (1930), in alcune nature morte e in molte vedute romane, barocche e decadenti, dipinte con tratti nervosi e allucinati, i cui colori scuri evidenziano il senso di oppressione provocatogli dal riacutizzarsi della sua malattia, che lo uccise a 29 anni.

Oltreché pittore, Scipione fu anche disegnatore, critico d’arte e poeta. Suoi versi, con il titolo Carte Segrete, furono pubblicati per la prima volta da Vallecchi nel 1943. In seguito Einaudi li raccolse in volume nel 1982 e poi nel 1997, con prefazione di Amelia Rosselli, insieme a brani di diario, prose, lettere e frammenti sparsi in varie riviste e in libri difficilmente reperibili. Le poesie antologizzate nel libro einaudiano sono solo dieci; molto più numerose le lettere (a Enrico Falqui, soprattutto, che fu grande estimatore della sua scrittura, e ne incoraggiò a più riprese la diffusione; al poeta Libero De Libero, al pittore Mazzacurati, a un misterioso Reverendo e al fratello Goffredo), e gli appunti diaristici. Vengono riportati anche un breve saggio sulla pittura del Greco, e una prosa naturalistica. Dei versi, Amelia Rosselli scrive: “Le sue poesie si allontanano di gran lunga dall’esacerbata descrizione d’una Roma decadente e cattolica, impregnata di rossori mortuari e stravolti. La sua poesia è calma, candida, sensoria sì, quasi più dei quadri, ma in essa v’è una tranquillità non espressionistica che la rende del tutto individuale e difficilmente classificabile… Di estasi religiosa e di carne e di morte parlano le poesie senza che l’irrequietezza mistico-tragica, e disperatamente distruttiva, che è evidente nei quadri, traspaia”.

Di pacatezza malinconica e rassegnata, in verità, si può parlare forse solo per l’ultima poesia, immersa in una visione agreste probabilmente da riferirsi all’anno che Scipione trascorse convalescente in Ciociaria, a Collepardo, nel 1929: ma anche qui con un’evidente premonizione angosciosa di morte, e un fremito timoroso di abbandono: «Alla calata del sole una pecora / ha fatto un agnello. / È uscito tutto di lana, col sangue / il cuore la voce. / Gli uomini sbucano fuori / e se ne vanno via, / gli alberi aspettano il buio / per ignorarsi, / le erbe odorose si mettono / in cammino. / Le civette gridano, tutto si muove / e l’angoscia riempie l’aria / di inquietudine». In uno stile semplicissimo, lontano da qualsiasi barocchismo o pomposità dannunziana, così come dalla tonalità franta del primo Ungaretti, Scipione rende animato il paesaggio naturale, attribuendogli sentimenti e movimenti umani, in un’atmosfera panica di turbamento e mistero.

Più scabra e severa appare invece la poesia di apertura, Estate, anch’essa carica di immagini naturali (terra, sole, stelle, lucertole, grilli…), quasi visionariamente abbacinate, e patite con un’empatia fraterna e impietosita: «La terra è secca, ha sete / e si spacca. / Sui labbri dei crepacci / le lucertole arroventate / corrono in fiamme. // … La terra è secca, ha sete / e la notte è nera e perversa. / Cristo, dalle da bere, / ché vuol peccare / e farsi perdonare».

I colori ci sono, in queste poesie di Scipione, che evidentemente non si dimenticava di essere soprattutto un pittore: non solo i rosso-scuro e i neri dei suoi paesaggi romani, ma anche i gialli e gli ocra della terra bruciata dalla canicola, il verde dei campi, il blu di notti stellate. E c’è movimento, di carne umana e di sussulti animali, in una fisicità totale poco innocente, gravata come da una colpa: «Mise le mani per terra ed era simile / ad una bestia. / La terra ha tutti i nascondigli, / gli scarabei ronzano nell’aria. / La testa alla radice dei capelli brucia, / le spalle si aprono, le viscere si commuovono».

E ancora: «Gli odori colpiscono le narici, / le mani s’alzano a cercare / per toccare le cose create: / la pietra è fredda ‒ la carne è calda / e trascina intorno un fiato / che confonde la terra con il cielo».

Poi di nuovo: «Un uomo nudo cammina: / è bianco come un albero senza corteccia / e tutte le cose create vogliono toccarlo. / E lui taglierà gli alberi / dopo aver goduto della loro frescura, / prenderà i pesci del fiume, / gli uccelli che volano. / Nell’aria c’è il fuoco, / il tuono scoppia / e la folgore scrive nel cielo / il carattere di Dio. / Il timore, il timore di lui / spezza il corpo nell’adorazione».

Aveva ragione Amelia Rosselli quando scriveva dell’intensa religiosità percepibile in questi versi, nutrita forse di letture bibliche, e soprattutto dell’Apocalisse. Ma le divinità che governano il mondo allucinato di Scipione sembrano del tutto paganeggianti, faunesche, riecheggiando semmai le metamorfosi ovidiane, come in questa bellissima composizione con cui desidero chiudere la mia breve rassegna della poesia di questo sfortunato e quasi dimenticato artista:

Coro d’estate

«Io sono la voce dell’albero che cade, / la mia corteccia sarà accarezzata / quando si vedrà che dentro sono bianco. / Le mie radici sono d’avorio e sono / nascoste ‒ la terra fine le ricopre. / Il mio corpo è rotondo, / l’aria sola mi toccava. / Gli uccelli hanno nidificato nei miei rami, / i loro occhi vedevano tutte le mie braccia, / le foglie li nascondevano. / Sotto di me l’uomo si è riposato. / Io sono la voce del fanciullo, / le mie osse sono tenere e possono cadere / e non si romperanno. / Le mie gambe corrono, i miei piedi / non lasciano impronta. / Il timbro della mia voce somiglia / alla campana del mattino, / al bronzo leggero».

 

© Riproduzione riservata   «Il Pickwick», 21 dicembre 2017