BRETT SHAPIRO, L’INTRUSO – FELTRINELLI, MILANO 1994

Di Giovanni Forti, corrispondente da New York per L’Espresso, morto di Aids nel 1992, molti ricorderanno un coraggioso reportage-diario sulla sua agonia, cosciente e combattuta, pubblicato dal settimanale, e una straziante intervista televisiva con Enzo Biagi. Ci avevano impressionato i suoi occhi mobilissimi e stanchi, i tratti tirati, la voce affaticata ma intenerita con cui parlava di sé, del suo essere ebreo e omosessuale, del suo compagno e dei suoi bambini: ma anche di flebo e diarree, di reazioni fisiche mortificanti, della sua voglia di non arrendersi. L’annuncio, dopo poche settimane, della sua morte, ci aveva toccato non solo dal punto di vista umano, ma anche culturalmente, con la consapevolezza di aver perso una voce anticonformista e stimolante.
Ora Brett Shapiro, che aveva diviso con Forti gli ultimi due anni di vita, pubblica presso Feltrinelli un libro che è omaggio al suo compagno e insieme narrazione spietata di un lento, inevitabile soccombere alla malattia: ne è derivata una «storia d’amore della fine del nostro secolo» (come scrive Rossana Rossanda nella sua lucida e partecipe prefazione), più qualcosa d’altro. Una sfida al nostro perbenismo sempre in agguato, uno schiaffo al pregiudizio, un pungolo all’apertura della mente. Giovanni Forti (romano trentaseienne di origine ebraica, ex redattore de Il Manifesto, ex marito di Giovanna Pajetta, padre a tempo pieno dell’undicenne Stefano) incontra a New York tramite un annuncio sul giornale Brett Shapiro, intellettuale suo coetaneo e padre di un bambino adottivo. Forti è da anni sieropositivo, e non nasconde la sua condizione all’amico, che l’accetta insieme a tutte le inevitabili conseguenze: i due decidono di convivere, coinvolgendo nella loro scelta non solo i due figli, ma anche le famiglie d’origine, sempre incombenti e affettuose, totalmente comprensive, e di arrivare addirittura al matrimonio ebraico con rito tradizionale. Di fronte a un rabbino newyorkese, Brett e Giovanni si sposano sotto la huppah, recitando le formule della torah e calpestando i bicchieri di vetro, festeggiati da amici e parenti. Il desiderio di essere una famiglia “vera” è a tal punto impellente, insopprimibile, da richiedere il sigillo del rito, il ritorno alla tradizione più conservatrice e severa, quella della religione ebraica. E ciò che ai nostri occhi cattolicamente italici pare più incredibile, è la totale naturalezza con cui questa scelta viene accettata e condivisa dall’ambiente familiare e culturale che circonda i due compagni: così come ci sconcerta la scelta del coinvolgimento dei due bambini in un ménage tanto diverso dai soliti, non solo ideologicamente, ma proprio nelle abitudini quotidiane, nel sovvertimento dei ruoli, nella divisione dei compiti maschili e femminili. Ci imbarazza la presenza, molto americana e assidua, e per niente ironica, dell’analista-donna, delegata a risanare i traumi, a superare le divergenze in ogni occasione difficile della vita a due; ci infastidisce a volte l’esibizione provocatoria di un epistolario domestico che sembra ingiustificatamente diffuso su episodi troppo particolari e personali. Ma non si può negare al libro la capacità concreta di scuoterci prima ancora che di commuoverci con il resoconto del graduale spegnersi della vita di Giovanni e con la dedizione assoluta, generosa e appassionata di Brett al destino del suo compagno, al punto di convincerlo ad accompagnarlo a Roma, ormai sulla sedia a rotelle, perché lui possa morire dove desidera, tra i suoi, e riposare nel settore ebraico del Verano. Lo strazio della morte di Giovanni risulta dai fatti raccontati con asciutta veridicità, e lo riviviamo un po’ tutti perché ormai sappiamo (chi più chi meno) cosa significa assistere un malato terminale. Eppure davanti a questa morte così accoratamente pianta, ci ritroviamo più fragili e vulnerabili, e allora “ebreo”, “gay”, e quant’altre definizioni si vogliano, appaiono appunto quello che sono: etichette.

 

«L’Arena», 17 febbraio 1994