GIACINTO SPAGNOLETTI, POESIE RACCOLTE – GARZANTI, MILANO 1990

«Quanto di storia mi è transitato addosso / a me che sono un privato», scriveva uno dei nostri migliori poeti, Giovanni Giudici, in un suo componimento di alcuni anni fa. E parafrasandolo, quanta storia è transitata addosso a uno dei nostri migliori critici letterari. Giacinto Spagnoletti: storia privata, pubblica e letteraria, di cui oggi egli ci dà generosa testimonianza, pubblicando i suoi versi scritti tra il 1940 e il 1990, e occultati, quasi, severamente centellinati nell’arco di questo cinquantennio. Spagnoletti critico militante, come si amava dire nel ’68 e dopo, ha accompagnato le nostre lettere con puntuali e coraggiosi commenti, non solo tramite la sua lunga attività di docente universitario e i suoi interventi giornalistici su autorevoli quotidiani e riviste specializzate, ma soprattutto attraverso fondamentali pubblicazioni saggistiche: dalla giustamente famosa Poesia italiana contemporanea (Guanda, 1959) fino alla Letteratura italiana del nostro secolo, in tre volumi, usciti negli Oscar Mondadori cinque anni fa. L’attività poetica di un critico risulta, per forza di cose, alquanto offuscata, addirittura penalizzata, dalla sua produzione più nota e ufficiale: e Spagnoletti non si sottrae a questa considerazione, ne è stato probabilmente sempre vittima consapevole, se solo negli ultimi anni ha accettato di sottoporsi al rito inevitabile ma un po’ crudele delle letture in pubblico e della divulgazione dei suoi versi su riviste a bassa tiratura per farsi leggere come poeta. Oggi finalmente Garzanti pubblica dunque queste Poesie raccolte, e Spagnoletti diventa antologista e critico di se stesso, con l’umiltà di chi si offre a un giudizio complessivo, ma anche con l’audacia di una sfida troppo a lungo rimandata. La sua produzione poetica si scandisce grosso modo in due periodi fondamentali: alla Prima parte appartengono le sezioni Passato remoto e Ancora passato remoto, che raccolgono i versi dal ’40 al ’53, mentre più articolata e abbondante risulta la Seconda parte, che dagli anni ’70 arriva ai nostri giorni.

Pasolini, in un suo saggio del ’53 qui riproposto, scrive, a proposito dei versi della guerra e del dopoguerra, di “crepuscolarismo meridionale”, facendo i nomi di Di Giacomo e di Gatto: ma se di meridionalità si può parlare, sembra che comunque Spagnoletti abbia abbondantemente risciacquato i suoi panni in Arno, nell’ambiente frequentato al Caffè delle Giubbe Rosse, con Montale e il giovane Luzi, di cui si risentono notevoli influssi. Lo sfondo è probabilmente quello nativo del poeta, Taranto, ma rivisitato in un’atmosfera fiabesca, di ««velieri che non partono» e «alberi inclinati dal vento», di cieli grigi e paradisi di nafta, di uccelli marini e castelli oscillanti, in una scrittura che sempre privilegia la verticalità, il volo, l’ariosità, il salmastro. La nostalgia, giustamente definita da Pasolini “senza memoria”, perché appunto immemore, disinteressata ai particolari più veritieri, si è ricostruita i suoi miti. Il padre, in primo luogo, ufficiale di marina, novello Ulisse «brusco e sdegnoso come il mare»; «Quando tornerà dal paradiso,  / Capitano, ai miei gridi di fanciullo / Stupefatto l’oro del tuo berretto?» Ma anche la guerra e la resistenza, con omaggi che superano l’evento per inquadrarlo in un affresco metastorico, con i partigiani «simili a frati in un convento», «con la cupa passione della guerra»», trasfigurati attraverso la lente affettuosa e deformante della poesia. Meno idilliaco, più angosciato e critico risulta invece il rapporto con il reale nelle poesie dell’ultimo ventennio: l’elegia allora stemperata adesso si condensa in immagini più forti e nitide, la fiaba si fa cronaca, la tenerezza passione, magari temperata dall’ironia, in una progressiva ricerca di lucidità e adesione al vero. Il passato è sfrangiato da ogni residuo romantico e favoloso (Un viaggio); gli ambienti, gli odori e i personaggi dell’infanzia recuperano i loro contorni più netti (Mi ricordo); perfino le numerose poesie private (Pensieri di casa) e le dediche familiari sforano in un quotidiano universale e simbolico. In questa ricerca di adesione al reale, trova una sua giustificazione l’ Omaggio a una serva amorosa, sorta di collage operato dall’autore sulle lettere di Francesca Buschini a Giacomo Casanova, e rielaborato con fedeltà alla lingua veneziana del ‘700, secondo un registro di giocosità linguistica nuovo in Spagnoletti: «Se non mi mandate più denaro si vole / pacienza, ma non mi private / ve ne suprico, de vostri bramosi carateri / che si saranno etternamente cari».

Anche se più tipici, propri di un timbro coltivato e riconosciuto attraverso «anni di appostamenti / critici e l’abitudine di parlare / di libri costretto da altri libri», sono i versi autobiografici e sofferti del Diario di Barcellona, e quelli amari e lievi dedicati a Sandro Penna o a L’amore da vecchi: «Ahimè, nulla si muove nell’inquieto / sopore dei vecchi, l’amore è una spina / che punge di rado //…Poco o nulla si può recuperare: /… solo nomi, nomi, nomi».

 

«Hortus» n.4, luglio-dicembre 1991