GEORGE STEINER, DIECI (POSSIBILI) RAGIONI DELLA TRISTEZZA DEL PENSIERO

GARZANTI, MILANO 2016

 

Uno dei maggiori critici e intellettuali al mondo, George Steiner (Parigi, 1929) ha pubblicato nel 2005 questo folgorante e incisivo saggio che oggi Garzanti ripropone in edizione economica. Dieci (possibili) ragioni della tristezza del pensiero si apre con una pregnante ed esplicita citazione da Schelling che, già agli inizi dell’800, sottolineava l’inevitabile malinconia derivante dalla consapevolezza della nostra precarietà di creature mortali, e dalla imprescindibile finitezza dell’esistenza umana.  Steiner parte quindi dall’affermazione del filosofo tedesco per elencare, in modo chiaro ed esemplificativo, dieci motivazioni che gravano sull’animo dell’uomo, rendendolo “pesante”. E queste motivazioni sono tutte collegate e dipendenti dal pensiero, cioè dal fatto che siamo – come scriveva Pascal – “canne pensanti”, fragili sì, esposti a qualsiasi incidente o fatalità fisica e psichica: ma pensiamo. Da ciò deriverebbe appunto, secondo Steiner, la nostra irrimediabile tristezza.

Perché il pensiero è illimitato (1): «possiamo pensare tutto e su tutto». Possiamo credere in Dio, nella resurrezione dei corpi, nella trasmigrazione delle anime, nell’inferno, così come nell’entropia, nel collasso dell’universo, nel nulla che ci aspetta. Ciò ci rende dubbiosi e frustrati. Pensiamo poi in modo incontrollato (2), raramente riuscendo ad astrarci dagli stimoli esterni, ancora più raramente concentrandoci in profondità; i nostri pensieri sono anarchici e ondeggianti, subiscono intrusioni e influenze, seguono impulsi irrazionali.

Quando pensiamo, pensiamo in noi stessi e a noi stessi, non ci è dato di conoscere profondamente la mente dell’altro, nemmeno di chi più amiamo. Ma questa unicità non ci rende unici (3), perché i prodotti della nostra intelligenza e creatività «sono stati pensati, sono pensati, saranno pensati milioni e milioni di volte da altri». Nessuna opera d’arte è davvero originale, nessuna forma di comunicazione può definirsi davvero nuova. «Pensare è il più comune, usurato, ripetitivo degli atti». Non esiste nessuna verità autoevidente, incontrovertibile, eterna (4). «Tutte le asserzioni di verità, che siano dottrinali, filosofiche, storiche o scientifiche, sono soggette a errore, falsificabilità, revisione e cancellazione». La maggior parte dei nostri processi di pensiero, consci o inconsci, in sonno o in veglia, taciti o articolati, sono pura e affaticante dispersione di energia, confusa e senza scopo, che svanisce nell’oblio dello scarto indifferenziato (5). Il pensiero non produce nessun effetto immediato, concreto: «non fa accadere nulla ‘direttamente’, eccetto se stesso», e la neurochimica contesta la consequenzialità intenzionale tra causa ed effetto. Pare, insomma, non ci sia nessuna libertà di coscienza (6), ma che viviamo eternamente condizionati da altro.

Possiamo trattenere il respiro, non il pensiero, che non si ferma nemmeno nel sonno: forse crea se stesso, forse crea la realtà esterna, ed è sempre modificato da qualche presupposizione psicologica, corporea, culturale o dogmatica. Non riuscirà mai ad approdare a una verità incontaminata, primigenia, condannato com’è all’incertezza e all’oscurità (7). La finzione, l’autocensura, il filtro mina i rapporti col prossimo, soprattutto nel sentimento amoroso, anche nei momenti di maggiore intimità e nella fusione erotica. Si è più sinceri nella paura, nell’odio e nel riso spontaneo che nell’amore. Pensare significa essere mendaci, e ci rende estranei l’uno all’altro (8). La grande massa dell’umanità pensa seguendo indicazioni e mode prestabilite o indotte, in modo superficiale e senza porsi domande, per approssimazione, seguendo un “rumore di fondo” indistinto: la creatività del genio è isolata e considerata pericolosa, asociale, antidemocratica (9).

L’oggetto del pensiero è autonomo o tributario dell’atto di pensare? Realismo o idealismo? Si può pensare l’essere, si può pensare il nulla, si riesce davvero a pensare la propria morte e la fine del proprio pensiero? Qui, sulla decima motivazione della nostra irrimediabile malinconia, il percorso di George Steiner si ferma: l’uomo è triste perché «estraneo a se stesso e all’enormità del mondo… Rispetto a Parmenide o a Platone, noi non ci siamo avvicinati di un centimetro a una qualsiasi soluzione verificabile dell’enigma della natura – o dello scopo, se ce n’è uno – della nostra esistenza in questo universo probabilmente multiplo, alla determinazione della definitività o meno della morte e alla possibile presenza o assenza di Dio». Che tristezza.

 

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www.sololibri.net/ragioni-tristezza-pensiero-Steiner.html      13 novembre 2016