MARIAGIORGIA ULBAR, GLI EROI SONO GLI EROI – MARCOS Y MARCOS, MILANO 2015

Anche senza conoscere la data di nascita di Mariagiorgia Ulbar, che non viene riportata nella terza di copertina, sono certa di non sbagliare attribuendole trent’anni o poco più: e lo faccio con il vago senso di colpa dettatomi dalla mia età, che non è stata capace di assicurare ai giovani come lei più convinte certezze. Perché le poesie qui raccolte esprimono la rassegnazione, l’impotenza, l’impossibilità di progettare un futuro (e non la rabbia, non una più salutare ribellione) di tutta la sua generazione. Non vorrei dare una lettura sociologica, o solo attenta ai contenuti, dei versi di Mariagiorgia; ma forse è il caso di partire proprio da questa considerazione. La sua scrittura esprime un sofferto, lacerato disorientamento, senz’altro più esistenziale che culturale. Perché i mezzi espressivi ci sono tutti, a iniziare da una tradizione novecentesca – soprattutto mitteleuropea – ben assimilata (da Rilke, con il suo angelo terribile, gli amanti, gli acrobati… fino a Mann), e c’è anche un’evidente sensibilità pittorica (penso ai paesaggi industriali di Sironi, alle marine di Carrà, a qualche incubo magrittiano…) e filmica (Bergman,Truffaut). Troviamo in lei una consapevolezza formale già matura, il dominio di formule retoriche collaudate (anafore, ellissi, sinestesie), l’attenzione descrittiva al paesaggio. Tuttavia, di che paesaggio si tratta? Marino, soprattutto, o meglio: marittimo. Non spiagge assolate, estati turistiche, tuffi, passeggiate romantiche; ma città costiere (Ancona, Pescara, Livorno, Trieste, Palermo,Venezia…) nei loro porti fumosi, litorali ingombri di rifiuti: raffinerie, piattaforme, lamiere, tubi.

«Ciò che lascia fuori la risacca / gli oggetti strani, dimenticati o rotti / quello che resta, lo scarto, i pezzi»; «È solo acqua ora sopra e sotto / così non c’è modo di tirare  / su le àncore, sapere/ se è bonaccia o burrasca in queste ore»; «Andrò sul fondo, sulla sabbia / dove vivono le salme e i relitti»; «Se non è marino, il paesaggio diventa campestre, e brullo, desolato, sporco»; «Qui mi sporcano la polvere, il catrame / gli incarti di pasti già mangiati…// la terra, i balsami, le bende»; «Torno dove termina la strada / dove resta solo il bivio / dove trovo i calcinacci…// un solco, una crepa»; «asfalti e bar bollenti / tavoli di plastica rossi e bianco avorio / con il buco al centro senza ombrello»; «Sotto le rotaie e sotto il fiume / vivono i topi…».

Un esterno sempre squallido e minaccioso, da cui bisogna scappare per salvarsi, ma senza sapere dove trovare scampo, in che modo sfuggire a incendi dolosi distruttivi, ricorrenti come incubi, e a scenari di persecuzione bellica: «mettere in un sacchetto il nostro oro  / se dovesse servirci all’improvviso  / per mangiare, lasciare un posto troppo buio, / salvarti da qualcuno, passare le frontiere nottetempo / fare uno scambio: un mio anello, un mio ricordo / per una indicazione e acqua fredda in cambio».

Il fatto è che Mariagiorgia e la sua generazione, una guerra non l’hanno mai vissuta («e a noi è mancata una guerra / mondiale, ti ho detto all’improvviso»): le loro catastrofi, le tragedie e i terremoti sono sempre individuali, mai collettivi, e assumono dimensioni squassanti da cui non ci si può, o non ci si sa, difendere («noi siamo quelli che non disturbano mai»). Per questo il j’accuse silenzioso e tanto più doloroso e ricattante verso la generazione matura diventa nei versi pesantissimo, quasi insostenibile: riflettendo però anche un’implorante richiesta di aiuto, come nell’intensa sezione Mio padre era un re, in cui l’autrice supplica regole e indicazioni, un appoggio sicuro, un insegnamento severo e illuminante per riuscire a resistere, per non soccombere di fronte all’indifferenza crudele della vita: «Di metodo ho bisogno per passare, / di metodo, di ordine, così invoco». Il padre tace, i padri tacciono, e Mariagiorgia Ulbar diventa portavoce di una collettività letteraria giovane, spaesata, intimorita ma solidale e affine anche nella scelta dello stile poetico, intimista, mai urlato, più consapevole di memorie che desideroso di futuro: «I cani andavano felici sulle spiagge, / io in ultima carrozza / col futuro alle mie spalle, dove vado / mentre guardo le rotaie del passato / che si allontanano».

 

«Nazione Indiana», 8 luglio 2015