CESARE VIVIANI, LA POESIA È FINITA – IL MELANGOLO, GENOVA 2018

Cesare Viviani (Siena 1947) affianca all’attività letteraria quella di psicanalista. Come poeta, è partito da posizioni dadaiste (L’ostrabismo cara, 1973, e Piumana, 1977), ma in seguito il suo perc orso non ha trascurato cadenze dialogiche, narrative e talvolta epigrammatiche (Preghiera del nome, 1990, premio Viareggio; La forma della vita, 2005; Credere nell’invisibile, 2009; Osare dire, 2016). Come saggista, ha esplorato i territori della creazione poetica, dei processi mentali e della convivenza civile (La voce inimitabile. Poesia e poetica del secondo Novecento, 2004; Non date le parole ai porci, 2014).

In questo breve saggio pubblicato da Il Melangolo, Viviani ribadisce considerazioni note e condivisibili  riguardo allo stato piuttosto comatoso in cui si trova la poesia contemporanea: non viene letta (se non dai poeti stessi, e da una cerchia ristretta di loro amici, conoscenti, familiari e rari estimatori); non si vende (le case editrici sono giustamente recalcitranti a pubblicarla, in quanto operazione economicamente in perdita); non assicura più a chi la scrive né fama, né prestigio, né soldi o vantaggi professionali; si è paurosamente omogeneizzata nello stile e banalizzata nei contenuti; non riscuote interesse nemmeno da parte dei critici letterari più influenti. Sulla scia della Nobel lecture montaliana del 1975 intitolata È ancora possibile la poesia?, Viviani più provocatoriamente e perentoriamente afferma che La poesia è finita.

«… la poesia non trova più ascolto. Non c’è più spazio per la poesia. Il troppo pieno, la parola piena, la comunicazione continua hanno sepolto i migliori poeti del secondo Novecento: non si leggono più, non hanno più la considerazione che prima, trenta anni fa, si dava loro. Tra vent’anni nessuno saprà più chi erano Saba, Erba, Giudici, Luzi, Zanzotto, Sereni, Raboni, Porta… Solo qualche solitario ricercatore universitario…».

Cos’è che condanna la scrittura in versi all’irrilevanza, secondo Cesare Viviani? In primo luogo, l’ignoranza della tradizione letteraria da parte di molti giovani e supponenti poeti, che si improvvisano tali senza la necessaria e doverosa preparazione, senza avere letto e meditato i classici e gli autori più importanti dell’ultimo secolo, limitandosi ad affollare i festival, a riunirsi in conventicole di illuminati (spesso al seguito di sedicenti Maestri più anziani, interessati narcisisticamente a crearsi un manipolo di fedelissimi). Altro importante motivo del declino della poesia contemporanea risiede nella sua corruzione, derivata dai linguaggi mediatici e pubblicitari contaminati da internet o dalle canzonette, infiacchiti da una prolissità artefatta e vacua che impoverisce non solo il vocabolario, ma anche le idee. Infine, secondo Viviani (ma perché, se è nato nel ’47, a p. 28 si dichiara sessantenne?) non aiuta a risollevare il livello e la considerazione del testo poetico il commento distratto e talvolta privo di reale competenza di molti critici, poco interessati a vagliare e a selezionare il prodotto di qualità dalla pletora di composizioni carenti di ispirazione e originalità, spudoratamente imitative, stilisticamente disinvolte, incentrate in prevalenza sulla biografia dell’autore.

«La poesia non può essere affabile, accattivante, popolare, attraente l’immediata emotività: perché la scrittura che ha queste caratteristiche è cattivo giornalismo in versi», «…Il matrimonio dell’invadenza del linguaggio mediatico, superficiale e utilitaristico, con l’opportunismo delle relazioni personali (scambio di favori, protezione come segno di potere, bisogno di seguaci) annienta la poesia».

Le posizioni polemiche di Cesare Viviani, espresse aforisticamente, in modo quasi oracolare, senza seguire un’organicità di struttura, con sussultanti ripetizioni, riflettono una sua ideologia di altero elitarismo, nel reiterato sottolineare quale debba essere la natura della vera poesia: inesprimibile e ineffabile, assoluta e sconvolgente, definibile solamente attraverso due termini che vengono ribaditi con la cadenza di un mantra, “limite” e “vertigine”. «Quando si dice che la poesia dice l’indicibile, si intenda non che riesce a dirlo, ma che esprime, rivela l’incapacità, l’impossibilità di dirlo. Dice il limite invalicabile», «Allora l’essenza della poesia sta in quella vertigine che si prova di fronte a un abisso: di fronte all’impossibilità di definizione e di sistemazione, di fronte a un vuoto di comprensione, a un’interruzione di senso».

Convinto della missione profetica e salvifica del verbo poetico, Viviani finisce per trascurare l’attività artigianale della composizione, il lavoro prudente e consapevole sui termini, il confronto e il rispetto dovuto alla produzione altrui. Scrivere poesia non sempre si riduce a un invasamento orfico, a un’illuminazione soprannaturale che non tollera valutazioni. Ignorando l’impegno attento e qualificato di molti stimabilissimi critici (Casadei, Cortellessa, Mazzoni, Belpoliti, Ossola, Brevini, Pedullà, Bertoni, Prete, eccetera…), Viviani non rende un buon servizio a chi voglia avvicinarsi alla poesia come autore o come semplice ma appassionato fruitore di testi. In fondo, proprio nel suo non essere utile e sfruttabile economicamente, quest’arte destinata a finire mantiene ancora uno scampolo di gratuità, sebbene la sua estrema democratizzazione odierna l’abbia in qualche modo resa meno “nobile e pura”.

 

© Riproduzione riservata          «Il Pickwick», 11 giugno 2018