ALICE VOLLENWEIDER, SAN MARCO NEL NEVISCHIO – CASAGRANDE, BELLINZONA 1990

Il resoconto di viaggio in letteratura ha ascendenze illustri e antichissime, a partire dal mitico itinerario dantesco, attraverso i percorsi artistici del Vasari e ai viaggi più o meno sentimentali degli scrittori inglesi del ‘700, fino alle affascinati cronache di Goethe e Stendhal, per arrivare ai reportages contemporanei di Parise, Pasolini e Moravia, talvolta più convincenti della loro stessa narrativa di invenzione. Oggi il viaggio viene per lo più raccontato con mezzi diversi dalla macchina per scrivere, soppiantata ormai da telecamere e obiettivi fotografici anche nell’esperienza diretta di scrittori e giornalisti. E proprio con la fotografia la narrativa di viaggio ha molti punti di contatto. Infatti, in un racconto come in un’istantanea, almeno tre sono i punti di vista e gli elementi interessati al fenomeno descrittivo: il fotografo (o l’autore-narratore), la persona o l’oggetto prescelto per essere inquadrato (o raccontato), e il pubblico fruitore dell’immagine o delle pagine espositive. Su queste e altre considerazioni fantasticavo leggendo l’ottima raccolta di articoli di viaggio di Alice Vollenweider, San Marco nel nevischio, pubblicata recentemente a Bellinzona da Casagrande. Alice Vollenweider, critico letterario zurighese, traduttrice, giornalista ed esperta di cucina, ha scattato in questi capitoli 10 “fotografie” italiane, dedicate a città del centro-nord della penisola. Non ha usato una Polaroid per questi suoi racconti, bensì una macchina sensibilissima, dagli obiettivi potenti e dalle zoomate rapide. Ha scelto sempre inquadrature particolari, sottraendosi alla banalità del bel panorama e dello spunto folklorico. Così di Milano non viene raccontata la Scala o il Duomo o la frettolosità laboriosa dei suoi abitanti; piuttosto, la funzionale vivacità del Mercato Ortofrutticolo o la storia dei Navigli o il fascino discreto dei bar nelle vie più anonime. Di Genova, l’autrice snobba la Lanterna e il porto per accompagnarci tra i vialetti del cimitero di Staglieno, con i suoi monumenti -molto sussiegosi e talvolta involontariamente umoristici- alla borghesia imprenditoriale e mercantile della città. A Roma non sono le boutiques di Via Condotti ad attirare l’attenzione della Vollenweider, quanto le edicole e le librerie stipate di merce invenduta e sorvegliata da commessi annoiati, oppure il ghetto ebraico, descritto in pagine partecipi e ricche di connotazioni. Per continuare nella metafora fotografica iniziale, è ovviamente l’Italia l’oggetto di questi ritratti, un’Italia non solo fisica e ambientale, ma svelata nelle sue facce e nelle sue chiacchiere, fissata in atteggiamenti atemporali e immodificabili, quanto in modi d’essere ormai desueti. Il lettore cui si rivolge il libro di Alice Vollenweider era inizialmente quello svizzero; gli articoli sono infatti stati pubblicati sulla Neue Zürcher Zeitung, pensati probabilmente per quei confederati che «si recano volentieri a Milano, a un’ora di macchina o di treno da Lugano, per fare acquisti, visitare mostre e mangiare veramente bene all’italiana, cosa sempre meno possibile nel Ticino gremito di turisti». Costoro avranno letto questi brani (scritti in tedesco tra il 76 e l’81) come un osservatore ignaro si pasce gli occhi davanti a foto che ritraggono particolari a lui ignoti, con stupore, interesse, curiosità via via crescenti. E il lettore italiano che li legge ora per la prima volta, in accurata traduzione? Come si sente la persona fotografata, magari a sua insaputa, e che nel rivedersi bloccata in un atteggiamento o espressione peculiare finisce per scoprire di sé cose che magari non sapeva, che non immaginava? Difetti, forse, o forse anche virtù, bellezze ignorate… Il lettore italiano, divenuto modello e pubblico insieme, potrà provare complicità e orgoglio di fronte a pagine che ritraggono le città immeritatamente trascurate della Pianura Padana (Parma, Modena), altre della costa tirrenica, oscurate dalla fama spesso usurpata di stazioni balneari più alla moda. Ma può sentire pure una leggera mortificazione, un senso di inadeguatezza personale (come giustamente avverte Luigi Malerba nell’acuta prefazione) davanti a questa passione gratuita per il Belpaese di una scrittrice straniera, davanti alla sua capacità di esaltarsi e di indignarsi, sorvolando generosamente su alcuni difetti e amareggiandosi per i vizi più ottusi. Il volume è sempre omogeneo e di piacevole lettura, nella leggera ariosità dei suoi dieci pezzi “giornalistici”, incastonati da altrettante presentazioni più intenerite e autobiografiche, e corredato da una ventina di splendide immagini in bianco e nero. Una galleria, appunto, di originali foto in prosa, impreziosite da cornici discrete ed eleganti.

«Agorà» (Svizzera), 23 maggio 1990