DEREK WALCOTT, DEMOCRAZIA E POESIA –  MEDUSA, MILANO 2017

Le tre interviste che il poeta caraibico Derek Walcott (1930-2017), premio Nobel nel 1992, ha concesso nel 1988, nel 2001 e nel 2005 negli Stati Uniti in occasione di festival letterari o conferenze universitarie, vertono non solo sulla sua produzione in versi, ma anche sul rapporto che intercorre tra scrittura e impegno sociale.

Particolarmente reattive e polemiche sono le sue parole riguardo agli stereotipi radicati nell’immaginario collettivo sui Caraibi, sfruttati turisticamente e tenuti in considerazione solo per gli splendidi panorami da cartolina o abusati da un pietismo retorico per la povertà degli indigeni, “in un ruolo prestabilito, una sorta di schiavitù benigna”. In realtà, la culla in cui si è forgiata la poesia di Walcott è un melting pot di culture diverse (africane, inglesi, olandesi, con una forte immigrazione cinese e indiana), che hanno contribuito alla formazione di rituali, linguaggi, musiche, religioni e miti differenti e sempre stimolanti, arricchenti. L’aver poi studiato in Europa e negli USA, e  l’aver insegnato per molti anni ad Harvard, ha messo in grado il poeta di confrontare la sua indole e la sua cultura di nero delle Antille (sono rimasti famosi questi suoi versi: «Io sono solamente un negro rosso che ama il mare, / ho avuto una buona istruzione coloniale, / ho in me dell’olandese del negro e dell’inglese, / sono nessuno, o sono una nazione») con la colonizzazione capitalistica della superpotenza americana, che con il miraggio della ricchezza e del benessere ha ipnotizzato intere popolazioni, asservendole acriticamente alle imposizioni del suo potere. Critico nei confronti della politica dell’Impero, e dei modelli culturali dominanti, Derek Walcott demanda proprio alla poesia il compito di pungolare le menti e le coscienze della gente, perché «i poeti muovono sempre le acque», instillando nei lettori dubbi e domande che non possono venire esaudite con soluzioni materiali, ma riguardano la condizione umana più in generale, la sua finitudine che si scontra con l’ansia di infinito, il quotidiano che aspira all’assoluto. Platone bandiva i poeti dalla Repubblica ideale, poiché ne intuiva la pericolosità e la capacità di resistenza e ribellione.

In questo libriccino, Democrazia e poesia, introdotto da un’esemplare prefazione di Luana Salvarani, Walcott espone tesi coraggiose e controcorrente, sfidando i luoghi comuni e i pregiudizi che comunemente si nutrono nei confronti della composizione in versi. La quale non può e non deve risultare da un facile spontaneismo, da una superficiale improvvisazione: si basa invece sullo studio approfondito della tradizione, e va esercitata con l’esercizio tecnico, usando il labor limae dell’imitazione e della traduzione. E se la fruizione della poesia e dell’arte è un diritto di tutti, promosso doverosamente da ogni democrazia, la produzione dell’arte e della poesia non spettano a tutti. Che chiunque possa auto-definirsi poeta, senza esprimere una reale qualità formale o di contenuto, risulta dannoso e illusorio sia per chi scrive sia per chi legge.

«Non si può democratizzare il genio, non si può democratizzare il talento e dire che nella misura in cui qualcuno scrive, o ha il diritto di pensare, allora è automaticamente uguale al migliore di ogni letteratura. In altre parole, il diritto che ho di esprimermi non mi rende Shakespeare, non mi rende un grande scrittore». Se il poeta vuole farsi portavoce di un sentire universale, deve per prima cosa conoscere se stesso, «scivolare dentro la propria voce», renderla più forte e sicura, in un continuo e mai facile sforzo di ricerca e di superamento dei suoi limiti.

 

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www.sololibri.net/Democrazia-e-poesia-Derek-Walcott.html                21 novembre 2017