LEONARDO ZANIER , IL CÂLI – AMADEUS, MONTEBELLUNA 1989
CAMUN DI DIMPEÇ – ED. LE PAROLE GELATE, ROMA 1989

Due volumi di poesia pubblicati nello stesso mese dello stesso anno sono senz’altro spia di una vitalità di pensiero e di una fertilità di vena indubbiamente e invidiabilmente felice, esuberante. La stessa felicità ed esuberanza che Leonardo Zanier esprime col suo modo di aggredire la vita, di impastoiarsi nel lavoro, di spostarsi da un capo all’altro dell’Europa si evincono infatti dai suoi versi: chi li ha letti dal loro primo ufficiale e meritatamente famoso manifestarsi (Libers…di scugni là, 1960-1962) sa di questa passione politica, vis polemica, ma anche di quanta purezza di canto e limpidezza teorica essi siano pregni. Confrontarsi ora, in questo decennio che ormai ci separa dal duemila, con le utopie di una vita, è tanto impervio quanto stimolante per un sindacalista affermato e accreditato come Zanier; più difficile e intrigante ancora affrontare la sfida, da poeta, proposta dalla nuova poesia che oggi tanto si pratica e si esalta: impersonale, eterea e, quando in dialetto, addirittura elegiaca. Con questi suoi due nuovi libri,  Il câli  e  Camun di Dimpeç, Zanier ha accettato questa duplice sfida, affrontandola con il piglio baldanzoso che gli è proprio e approdando ad un risultato di sicura rilevanza e positività. Il câli (Il Caglio), pubblicato a Treviso, per i tipi di  Amadeus, è un testo complesso articolato in diversi livelli di scrittura, con una scissione ben netta tra prosa e poesia, documenti, saggi e interventi, italiano e friulano, senza tuttavia risultare ambiguo o discontinuo. Il caglio, che si aggiunge al latte scremato e scaldato per farne formaggio, è ingrediente in qualche modo magico, in qualche modo miracoloso, imparentato al lievito di evangelica memoria: serve a trasformare una materia, grezza, in un’altra, più elaborata, un prodotto naturale in uno più artificiale. Prosa in versi, pensiero in poesia, impegno politico in fermento poetico. I personaggi, gli ambienti, quelli tipici dello Zanier che già conosciamo (l’oste di Povolaro, Bortul dal Negro, cui duole la gamba amputata; la vecchia Mabile guaritrice di paese, mezza strega mezza luminare di una scienza alternativa e antichissima; Jacum, operaio della Sulzer di Winterthur, «Cipputi / furlan e svizzer»; i marocchini, nuovi emigrati sulle orme degli emigrati carnici…), protagonisti di un’epopea degli ultimi cui Zanier ha sempre dedicato la sua attenzione di politico e il suo amore di poeta. Ma ci sono anche altre atmosfere da osservare, altre somme da trarre: fare i conti con l’età che avanza e con il corpo che funziona meno bene: «e in ogni caso ci si troverà confrontati ad assumere una fase che ha davanti meno futuro. Insomma preparati a morire, entrare nella terza età, ridimensionare il campo d’azione, iniziare un nuovo ciclo, l’ultimo, non è faccenda semplice…».

«lu cjâf / l’é plui lambri / mi samea- // lu cuarp / mancul sbûrit / – no s’imbardea-», «I ciati ogni buinora / ch’a mi spieta / ‘tal armarut di formica / dal bagno / un quart di ridada / in porcelana / sul so telâr di azâr / arian e aur».

Abituarsi all’assenza, ai vuoti lasciati da persone amate o amiche, agli ambienti di lavoro e alle case cambiate, al venir meno della propria indispensabilità: «s’alzin / voi no mi lodin / arlevament / a mancjanza», «sôra / muruz e spaltadas / raminas e cunfins // jo cun lôr / spia e contrebandîr / (dai miei destins)», «par nasci / arbui o lerbas / in t’un âti forest / o finî ta lavatric / a less». Il poeta cambia dentro, cambiano anche i luoghi intorno, prostituiti al dio soldo («E poi stagioni e turismo: non tanto predica ecologista, ma caricatura minimale di un fenomeno degenerativo…», come nell’amara  Estât a Lignan). I personaggi quasi epici che animavano la vita delle comunità montane hanno lasciato il posto a persone meno vere, fatte quasi con lo stampo: la montagna stessa, sia essa carnica, svizzera o austriaca, si è imbastardita in un rapporto di sfruttamento reciproco col turismo, snaturandosi, condannandosi: «si viergins buteghins / di souvenirs e sciolinas / boutiques mode-in / tee-rooms Gasthäuser / camerirs sclâs / côgus ‘talians o grisons / lavaplaz turcs o tamils // tra i antî das butêgas / blanc e ross i ladins / ridint di gust / a contin i becins: / ‘Bundî-Buongiorno- / Grüzi-Grüssgott-Gutentag’ / a discin vivorz / a chel davoi ingjaulât / fascint pal frêt / ‘ta l’aria / nuluz di flât / a ogni peraula».

Il guardarsi alle spalle non è allora un processo nostalgico e un po’ reazionario di tanta poesia vernacolare, un “come eravamo” stillante retorica: in Zanier il parlare di figure e ambienti del passato, e il parlarne in dialetto, assume quasi una connotazione documentaristica, di ricerca e di memoria “archeologica”, affinché non tutto si perda di quello che siamo stati e che la Carnia è stata.
Nel secondo libro, Camun di Dimpeç, è proprio questo desiderio di narrare e fissare nel ricordo collettivo fenomeni e sentimenti in via di estinzione ad avere lo spazio e la tensione poetica maggiore. Camun di Dimpeç (titolo che gioca sul doppiosenso tra camuno-comune) è un pregiato volumetto stampato in pochi esemplari, numerati e firmati, dall’editore Martinis per  Le parole gelate di Roma: Zanier vi narra la storia di un bastone ritrovato in una malga di Ampezzo, minutamente inciso in tutta la sua lunghezza con disegni riportati anche sul libro: «…ramazut di nolâr, taiât ‘ta stagjon dai amôrs…sgorbiuta cul mani di quargnul e timp, timp avonda e un pinsîr, un pinsîr fiss ‘tal cjâf…». Quale sia stato il pensiero fisso del contadino-artista, Zanier cerca di interpretarlo, da poeta, con l’offrire una lettura che partendo dall’incisione descritta minuziosamente, arriva ad azzardare ipotesi psicanalitiche, ma anche soluzioni più leggere e fantasiose, a dare aria al già arioso e inventivo ricamo grafico, come in questo bel pezzo, Tension: «Pès ch’al svuala e al si alza ribaltât…ai van devour: linzul, aquilons, tovalas, gardelas e imo’ cours, cours-pess, cours-pagnocas…Dût tacât, picjât, come a suîa sui rais dal sôreli, o su ramazuz di un arbulon di cucagna, o sui fi di una tela di rai…Taula improntada, sul prât, par in gustâ di nozas. Dut al va in su, in sbighèz: tension, tiradoria, fan… voia insomas. Il pastor vevel fan? Fan di ce? I mi dîs j ti dîs…».

«Agorà» (Svizzera), 21 giugno 1989