ALKI ZEI, LA TIGRE IN VETRINA – EINAUDI, TORINO 1978
ALBERTO LECCO, L’INCONTRO DI WIENER NEUSTADT – MONDADORI, MILANO 1978

Uno dei romanzi per l’estate proposto da Einaudi è La tigre in vetrina, di una scrittrice greca vivente ora a Parigi, Alki Zei. Si tratta di un romanzo che ha circa una quindicina d’anni, ma ha potuto essere pubblicato in Grecia solamente ora, per i troppi richiami alla dittature dei colonnelli. La storia infatti si svolge nei mesi che precedettero e seguirono la dittatura fascista di Metaxas, nell’estate del ’36, quando tutto l’orizzonte europeo era già scuro per la guerra di Spagna e le prime avvisaglie della follia hitleriana. Due bambine vivono con i genitori su un’isola che mantiene ancora qualcosa della selvaticità e della libertà naturali; con loro stanno il nonno (bella figura di antifascista, chiuso in camera a leggersi i classici e a trarne insegnamenti di democrazia), una zia e una vecchia cameriera. Con loro vive in qualche modo anche una tigre impagliata, che le bambine fanno protagonista di nuove avventure e simbolo di ribellione al mondo incomprensibile degli adulti. Melia e Myrto diventano presto vittime inconsapevoli, e perciò più indifese, dell’improvviso mutamento dell’atmosfera politica: attraverso di loro, dietro i loro giochi e il loro linguaggio infantile, si intuisce il dramma di una paese e di un periodo intero di storia greca. La dittatura cambia il corso della vita familiare, sembra dividere gli stessi componenti della famiglia, obbliga a comportamenti inautentici e, agli occhi delle bambine, ridicoli. La storia è narrata con garbo e ingenuità, e la poesia di questo libro sta appunto in questa discrepanza tra la drammaticità degli avvenimenti e la leggerezza malinconica con cui le due sorelline li vivono.
Un altro romanzo che vive in una dimensione di simile oppressione è L‘incontro di Wiener Neustadt, di Alberto Lecco, ambientato in una stazione austriaca durante l’ultima guerra. Vicenda scarna, che si svolge nell’arco di poche ore, con tre soli personaggi sullo sfondo misero di rassegnazione (da una parte) e crudele lucidità (dall’altra) che segnava i rapporti interpersonali all’epoca della persecuzione razziale. Una giovane coppia di ebrei stabilisce una comunicazione intellettuale con un altrettanto giovane ufficiale nazista: il racconto è imperniato appunto su questo dialogo impossibile. Una solidarietà culturale, che gli ebrei sottolineano e continuamente incoraggiano nella speranza che si trasformi in solidarietà politica, o più semplicemente, umana; un fascino subito reciprocamente, una specie di complicità che si instaura tra queste persone che (per caso e per necessità) oscillano tra l’essere vicine e l’essere lontane. Un rapporto ambiguo, tutto teso su un filo di colloquio condotto dal narratore in maniera sapiente. Ma un romanzo, per farsi perdonare di essere intelligente, sembra debba pagare uno scotto: e in questo caso lo scotto è il gusto della citazione, l’aristocraticità culturale sbandierata, un linguaggio fastidiosamente raffinato (troppi e troppo classici gli “epperò” al posto dei più semplici “però”): ma tutto ciò serve forse a suggerire la risposta, che la cultura non basta a salvare, che la vera comunicazione avviene non tramite determinate “affinità elettive”, ma in altro modo, più responsabile e cosciente.

 

«Quotidiano dei Lavoratori», 27 agosto 1978