ARISTOFANE, LA FESTA DELLE DONNE – GARZANTI, MILANO 2020

Con una puntuale prefazione di Filippomaria Pontani, Garzanti ripubblica La festa delle donne, commedia che Aristofane portò sulla scena nel 411 a.C., in un periodo delicato della storia di Atene, in guerra con Sparta da oltre vent’anni, e preda di turbolenze politiche che nel giro di pochi mesi l’avrebbero portata alla momentanea caduta della democrazia e all’instaurazione dell’oligarchia dei Quattrocento. Questo testo ci è stato tramandato da un singolo manoscritto medievale, vergato nel X secolo a Costantinopoli, e conservato nella Biblioteca Classense di Ravenna. Si tratta di un atto unico recitato in occasione delle Tesmoforie, una festa autunnale dedicata alle dee Demetra e Persefone, a cui potevano partecipare solo donne nobili e sposate, con una serie di processioni, riti segreti, canti, digiuni e rappresentazioni sacre.

In questa pièce, dalla vis comica particolarmente mordace, viene discusso il ruolo delle donne nella vita pubblica della città, con riferimento alla perenne guerra tra i sessi. L’intenzione di Aristofane non è però di denuncia politica, bensì di satira contro un unico obiettivo culturale: Euripide, il più famoso tragediografo dell’epoca, accusato di empietà, scarso amore di patria, corruzione dei costumi. Euripide, nell’invenzione aristofanesca, deve difendersi davanti a un’assemblea di donne riunita nel tempio (parodia dell’ekklesía ateniese), in cui si contestano i contenuti denigratori delle sue tragedie nei confronti del sesso cosiddetto “debole”. Non lo fa in prima persona, ma affida l’arringa a un suo parente, camuffato in vesti muliebri, il quale tenta di controbilanciare le accuse inviperite delle protagoniste sottolineando anche le colpe e i difetti che si annidano negli animi e nei comportamenti femminili.

Una delle più esagitate rappresentanti dell’accusa, Mica, così parla del massimo autore teatrale greco: “Mi alzo a parlare non per ambizione, donne, lo giuro in nome delle dee: ma davvero da tempo non sopporto di vederci infangate e sputtanate da Euripide, quel figlio di erbivendola: subiamo offese a iosa, e d’ogni tipo. Di quali oltraggi non ci copre? E quali calunnie ci risparmia, niente niente che abbia un coro, gli attori, e un po’ di pubblico: ci definisce adultere, ninfomani, ubriacone, ciarlone, traditrici, poco di buono, male immenso ai maschi”. Altre voci singole di donne, e il coro intero, si esprimono con giochi di parole equivoci o scurrili, parodiando personaggi e contenuti dei drammi euripidei, bersaglio polemico di Aristofane, che non ne apprezzava la mancanza di fede negli dèi, la morale libertaria, la eccessiva giustificazione delle debolezze umane, l’esibito intellettualismo.

Non ci troviamo di fronte a un manifesto di rivendicazioni femministe: il tono della commedia è leggero e spumeggiante, nella conclusione rappacificante che ammette le reciproche manchevolezze nei rapporti tra i due sessi. Ma anche nell’orgogliosa sottolineatura del coraggio, della generosità e dell’onestà che caratterizza l’esistenza di mogli e madri, attente custodi dell’economia domestica. Così il coro può affermare con fierezza: “Adesso, perbacco, lodiamo noi stesse, benché dicano cose tremende del sesso muliebre: noi saremmo rovina degli uomini, fonte perenne di discordie, di lotte intestine, di guerre e dolori. Ma se siamo davvero un disastro, perché ci sposate, ci vietate di uscire, di mettere il naso di fuori, e volete a ogni costo tenervi ben stretto il disastro? Se una donna va fuori e tornando scoprite che è in giro, impazzite di rabbia, anziché rallegrarvi e gioire constatando che è uscito, il disastro, e non circola in casa…”

Insomma, uomini che si lamentano a torto, che sfruttano e ridicolizzano, ma poi non riescono a fare a meno delle loro insopportabili compagne.

 

© Riproduzione riservata                  17 marzo 2020

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