GIOVANNI ARPINO, LA SUORA GIOVANE – PONTE ALLE GRAZIE, FIRENZE 2017

In un romanzo del 1959, La suora giovane, Montale intravide “tutta l’aria di un capolavoro”. Quando mia figlia, scoprendolo sulla scrivania, mi ha chiesto “Arpino, chi era costui?”, mi sono sentita ancora più vecchia di quello che sono. Sì, perché Giovanni Arpino (Pola 1927-Torino 1987) è stato un importante narratore, poeta, critico letterario, giornalista, premiato con il Campiello, il Super Campiello, il Premio Strega, di cui avevo letto con entusiasmo al liceo Il buio e il miele (1969), da cui Dino Risi aveva tratto il film Profumo di donna con Vittorio Gassman, divenuto poi celebre in un remake con Al Pacino. Dapprima Dalai, quindi Minimum Fax e infine Ponte alle Grazie hanno meritoriamente ripreso a pubblicare le opere di Arpino, uscite negli anni ’60 presso i più importanti editori italiani.

La suora giovane è uno smilzo e intenso libretto che racconta il rapporto non comune e intrigante tra un ragioniere quarantenne, Antonio Mathis, e una giovane novizia, Serena, entrambi in cerca di un ancoraggio esistenziale e di reciproco conforto sullo sfondo di una grigia Torino invernale, nell’arco del mese di dicembre del 1950. “Non ho coraggio”. Con questa frase lapidaria inizia ad apertura di pagina il monologo del protagonista, che successivamente ribadisce la scarsa considerazione di sé con altre due ammissioni: “Mi vergogno”, e “Mi sento ridicolo”. Narrando con pudore dell’abitudine di rimanere in piedi e in timoroso silenzio accanto a una giovane novizia, ogni sera alle sette sulla pensilina del tram 21, si interroga se sia il caso di approfondire la conoscenza con la ragazza, in cui nota il suo stesso sospeso e cauto interesse. Fidanzato da anni con una maestra elementare verso cui non nutre più alcun trasporto, Antonio trascina una vita priva di entusiasmi tra l’ufficio, il bilocale in cui vive, e qualche annoiata distrazione tra cinema e trattorie. L’incontro serale con la suorina, minuta e fragile, diventa improvvisamente il fulcro dei suoi pensieri e delle sue giornate, riempendogli la mente di fantasie, di interrogativi, di scrupoli morali.

Quando finalmente (dopo averla pedinata fino al convento in cui vive e in una chiesa in cui si rifugia a pregare) riesce a parlarle, intuisce in lei lo stesso trepido trasporto che anima le sue emozioni, e con gioiosa sorpresa accoglie quindi l’insperato invito a raggiungerla ogni notte dove lavora. Infermiera in un elegante palazzo del centro, si occupa infatti dell’assistenza a un anziano avvocato agonizzante: Antonio dovrà raggiungerla lì, sul pianerottolo dell’appartamento, e lei gli parlerà attraverso la porta appena socchiusa. Le conversazioni tra i due diventano in una settimana sempre più coinvolgenti e appassionate: Serena confida al ragioniere, con innocente scaltrezza, non solo la storia della sua imposta vocazione, il fastidio per le regole dell’ordine monastico, la vergogna per le origini della famiglia contadina, ma soprattutto la speranza e il desiderio che da mesi ripone nella persona di Antonio, vissuto come unica possibile liberazione dal proprio stato di soggiogamento. Il quarantenne si sente a sua volta investito di un ruolo di gratificante responsabilità, e accoglie con riconoscente sollievo questa inattesa svolta nella sua piatta esistenza. Rompe quindi tutti i rapporti sentimentali e di amicizia intrattenuti in precedenza, rifiuta stomacato la volgare compagnia della fidanzata e di alcuni amici in una tragica vigilia di Natale trascorsa sugli argini del Po, ma quando si presenta il giorno dopo al solito appuntamento con la novizia non la trova più.

Disperato, la cerca ovunque, spingendosi fino al vecchio casale agricolo di Mondovì dove vivono i genitori di lei: da loro viene a sapere dell’improvviso trasferimento volontario della ragazza a Ferrara, delusa dalle esitazioni di lui riguardo al loro futuro insieme. Le ultime pagine de La suora giovane si chiudono in maniera enigmatica, lasciando in sospeso la decisione di Antonio, se finalmente accettare la sfida coraggiosa propostagli dal destino, o invece ritornare alla sua abulica e irrisolta esistenza di prima.

Nel suo terzo romanzo, un Giovanni Arpino poco più che trentenne esibiva, con una prosa lucida e secca, un’assoluta abilità introspettiva nella caratterizzazione psicologica dei due protagonisti, una sapiente consapevolezza formale nella costruzione dei dialoghi e grande sensibilità nel ricostruire l’ambiente urbano e monotono di una gelida Torino agli albori del suo sviluppo industriale.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 20 maggio 2021