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RECENSIONI

LAMANTEA

ROBERTO LAMANTEA, LO STRAPPO BIANCO – INTERNO POESIA

Forse già dalle epigrafi che Roberto Lamantea (Padova, 1955) ha scelto come introduttive al suo libro di versi Lo strappo bianco, possiamo intuire quale sia il filo conduttore della sua riflessione poetica.

Louise Glück e Adam Zagajewski, scrivendo della “luce bianca / non più travestita da materia”, della “luce delicata che erra, svanisce / e ritorna”, sembrano alludere al dileguarsi del reale nella sua concretezza, quando sfuma in una impalpabile, evanescente luminosità. Luce bianca incorporea che, rischiarando ogni orizzonte, finisce tuttavia per confondere lo sguardo umano, incapace di spingersi oltre la consistenza delle cose.

Luce e bianco sono termini ricorrenti nel volume di Lamantea, quando parla del paesaggio “di luce in luce sfinito”, o del candore di ovatta cipria neve latte luna biancospino: bianco che si oppone al nero, alla minaccia della negatività. Questa luce, questo bianco dovrebbero rimandare al fiabesco, all’infanzia, alla genuinità, in contrapposizione alla prosaicità del reale… Ma “il metro del mondo / non sarà / un girotondo di fate /   e   zucchero e albe”, perché la storia non è mai innocente nelle sue vicende collettive e private, e il poeta ne è ben consapevole: “con le mani di terra / e corteccia / e linfa e spine / abbiamo arato colline / e sgozzato conigli // dalle zolle affiorano mani / e teschi”.

Il sangue versato da tutte le vittime di guerre a Treblinka, in Siria, in Iraq ne costituisce indelebile testimonianza.

Nemmeno la natura viene risparmiata da violenze e crudeltà, agite o patite. La metafora del bosco si ripresenta in tutte le sezioni del libro, anche in quelle dedicate a fugaci figure femminili che danno “sapore a un attimo distratto”, o a ricordi di vacanze adolescenziali. Il bosco, a cui è dedicata la prima sezione della raccolta, diventa simbolo di adesione panica all’esistenza, in un’apoteosi del vegetale (licheni foglie erbe rametti baccelli fronde muschi sterpi rami germogli rose glicini betulle) e dell’animale (scarabei insetti serpi ragni), in un tripudio di verde selvatico non addomesticabile, ma contemporaneamente può rappresentare una minaccia, nelle improvvise, abbaglianti visioni di pericolo e morte: “per mano ti portano per mano / nel bosco – non sentieri dossi rune / l’intrìco di rìvoli ex nidi / e spiume slavato è lingua / i fossi e rivi e cune / di terra dune piogge e brevi / d’attese, forse, e di slavati / sguardi – i cardi selvatici / di spine”. Subisce prepotenza e soprusi, il bosco, quando anche i suoi alberi vengono abbattuti e trasformati in carta, utile a stampare “poesia noiosa”; nello stesso tempo però si fa asilo e protezione di aggressive brutalità.

Chiaro e scuro si rincorrono in questa raccolta, sottolineati anche da frequenti variazioni nel registro stilistico: alla sonorità tutta giocata tra ripetizioni, rime e assonanze, innocui calembour – nostalgico richiamo ai girotondi, alle ninnenanne, alle cantilene dei bambini – si contrappone un audace sperimentalismo linguistico che utilizza allitterazioni, artifici eufonici, martellamenti ritmici, secondo la più collaudata lezione surrealistica. Eccone alcuni esempi: “snuda notte snìdia / in gola sfiorata / notte senza labbra vento senza labbra / notte sgozzata”, “ai denti fuoco e gioco / m’imbavo e rinasco / baco nel nido di terra nudo nel nudo di terra nido m’imbivo e bibo bulbo / e ovulo e ibisco e fiele / in vischio m’innesto e miele in ameba in ovulo // a rinascere terra // a rinascere terra”.

Anche i versi, differenziandosi nella lunghezza, variano da strofe pacatamente distese a distici contratti nell’allusività del significato: “nel giardino il sonno / tra le dita di un ragno”, e l’impressionismo descrittivo di molte composizioni si converte nella seconda parte del volume in una visionarietà più intimidatoria e ostile.

Una varietà di forme e contenuti che Lamantea ben riassume nel titolo ossimorico, dove lo strappo – di solito associato al rosso del sangue, al nero dell’affronto – esibisce la sua inoffensività nel bianco della resa.

 

© Riproduzione riservata    SoloLibri.net                    10 dicembre 2023

 

 

 

 

RECENSIONI

CRISCUOLO

GIORDANO CRISCUOLO, UN FATTO STRANO – ERETICA, BUCCINO (SA) 2023

In una torrida e silenziosa giornata di un luglio “appiccicoso”, il ventisettenne Antonio Maria Volpe – un giovane come ce ne sono tanti, appassionato di musica, gran lavoratore, comunista -, pranza con i genitori alle ore 13,30, bevendo molto vino. Esce in cortile per cercare un po’ di fresco e alle 13,50 padre e madre lo trovano sdraiato sull’amaca, morto. Il medico condotto del paese, subito avvertito del decesso, non crede alla versione fornita dai genitori del ragazzo, ritenendo invece che la sua morte risalga a ben tre ore prima.

Questo la premessa di Un fatto strano, romanzo breve di Giordano Criscuolo, scrittore ed editore salernitano, alla sua settima prova narrativa. In seguito i personaggi in scena si moltiplicano, tutti presentati con nome cognome ruolo mansione: la nonna, quattro amici, la cassiera di un supermercato, una vicina di casa, un hacker anarchico, due carabinieri. E la vicenda si complica, tramutandosi da spiacevole e doloroso resoconto della morte precoce di un individuo giovane e sano, in un ingarbugliato e insospettabile caso di cronaca nera.

Con un tono ironicamente sornione, uno stile conciso e puntuale che può ricordare il Camilleri dei primi gialli di successo (ma senza l’eccedenza dei suoi dialettismi), l’autore analizza i fatti scandendoli nel loro precipitoso incalzarsi, e addirittura registrandoli nella successione di minuti e ore, sulla falsariga di un verbale di polizia. La parodia del giallo d’azione con contorni mafiosi diventa sarcasticamente surreale, nell’insensata ricostruzione degli avvenimenti.

Gli amici testimoniano di essersi intrattenuti al bar con Antonio dalle 11,15 alle 11,45 parlando di “stronzate”, la cassiera del supermercato racconta di averlo visto entrare in negozio alle 11,50, per uscirne subito dopo con aria malinconica e smarrita. Il rientro a casa del giovane, avvenuto precisamente alle 13,10, segnala un vuoto di 80 minuti su cui le indagini riescono a imbastire solo supposizioni. A questo punto entrano in gioco due misteriosi uomini in nero con occhiali scuri, una sorta di “Man in Black” strapaesani, che si introducono nella casa del morto, entrando di soppiatto nella sua stanza e rubando un diario. Alle 14,24 i due uomini in nero vengono ammazzati per strada da altri due uomini in t-shirt e calzoncini corti, che appropriatisi del diario, lo consegnano alle 14,40 al capo-cupola locale, il quale dopo averne ridicolizzato il contenuto, lo brucia.

Spetta al giovane e biondo hacker Francesco Barba Micillo, amico fraterno di Antonio, offrire la reale versione dello svolgersi degli accadimenti: “So tutto”, esordisce. Ed è un tutto, quello che narra, fatto di divagazioni, censure, turbamenti, tra i cui balbettamenti distorti si delinea una storia torbida di mafia, vendette di paese, scambi di persona, trasferimenti di denaro, omicidi reali e morti virtuali.

Francesco e Antonio a quindici anni avevano trascorso una vacanza in Puglia insieme ad altri amici, incontrando un gruppo di ragazze sarde con cui avevano stretto amicizia. Antonio si era innamorato di Caterina, figlia di un boss dell’isola, che dalla nave che la riportava a casa era stata gettata in mare da due sicari assoldati da un potente nemico del padre. Del delitto era stato accusato il fidanzatino Antonio, che in un susseguirsi di minacce e ricatti durati più di un decennio, avrebbe dovuto lui pure essere eliminato. Spetterà al lettore, senz’altro incuriosito dalla rocambolesca vicenda, scoprirne l’inaspettata e imprevedibile conclusione, con il sottinteso ammonimento etico.

Il romanzo di Giordano Criscuolo, in cui vero e falso si sovrappongono confondendosi e smentendosi vicendevolmente, si situa nella scia delle commedie del teatro greco e romano da Aristofane a Plauto e Terenzio, poi riprese da quello cinquecentesco di Machiavelli e Bibbiena, dalla commedia dell’arte seicentesca fino al settecento goldoniano, là dove improvvise agnizioni, rapimenti, sotterfugi, burle e menzogne sortiscono l’effetto di svelare la corruzione dei costumi, la violenza e i soprusi del potere, l’ingiustizia sociale. Così infatti il protagonista definisce la trama, nell’ epilogo conclusivo: “una farsa portata in scena da gente piccola e da altra gente un po’ più grossa. Quando il sipario cala, mentre seduti tra il pubblico sembra che qualcosa ci sfugga e vorremmo chiederne di più al vicino, la gente piccola rimane sul palco a pulire, quella più grossa va per locali a brindare. Quelli come noi sono piccoli pesci in un mare di squali e i piccoli pesci vengono sempre mangiati dagli squali e dai pescatori”.

Ma per sfuggire ai pescecani si può (si deve!), scombinare le carte, inventare stratagemmi, e soprattutto sbeffeggiare i colpevoli: “una risata vi seppellirà”, si diceva in tempi più coraggiosi dei nostri.

 

© Riproduzione riservata    SoloLibri.net    3 dicembre 2023

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

GALEANO

JUAN CARLOS GALEANO, AMAZZONIA – DEL VECCHIO, FIRENZE 2023

Juan Carlos Galeano (poeta, saggista e traduttore) è nato nel 1958 nell’Amazzonia colombiana; emigrato negli Stati Uniti, insegna oggi all’Università della Florida. Oltre ad Amazzonia ha pubblicato un altro volume di versi e due antologie di miti indigeni. Anche in questo più recente lavoro, oggetto della sua riflessione ideologica e letteraria è il popolo della foresta, radicato nel mondo di animali e piante che il grande fiume – materno, paganamente divino – attraversa e nutre.

Delle cinquanta composizioni qui raccolte con testo spagnolo a fronte, la prefatrice Serenella Iovino sottolinea giustamente il tratto animista che accomuna in maniera metamorfica “delfini, alberi, ragazze, uccelli, serpenti, perfino oggetti all’apparenza inanimati”. Di questo universo Juan Carlos Galeano si fa interprete e avvocato difensore, come esplicita nell’epigrafe del volume: “Culture e specie viventi che non si connettono e non si scambiano con altre, si isolano, si impoveriscono, si indeboliscono. Vivere implica elaborare, tradurre e interpretare il mondo per andare avanti”.

Un impegno programmatico che lo scrittore traduce in versi simili a preghiere corali, a cantilene che mantengono l’ingenuità e la purezza dei girotondi infantili. In essi troviamo ricordi personali (il bucato steso al sole, la cameretta tappezzata da poster devozionali e profani, le notti passate a osservare il firmamento), flash di feste paesane, processioni e spettacoli teatrali, ma soprattutto la ribadita alterità degli indios, con le loro leggende e usanze, con la malinconica resistenza alla civilizzazione conquistatrice e la paura di un’espropriazione della propria cultura. Ragazzi che legano un filo intorno al collo degli avvoltoi facendoli volare come aquiloni, ragazze che si innamorano del fiume e vorrebbero diventarne le spose, bambini trasportati dalle madri in canoa e poi abbandonati nella foresta, adulti timorosi di affrontare nelle città le auto e le motociclette, villaggi impazziti di gioia per la pioggia.

Se il padre di Galeano si era trasferito con la famiglia in Amazzonia spinto dall’ideale di insegnare agli indigeni a pensare, il figlio poeta finisce per sodalizzare con la scelta dei nativi di continuare a vivere in un luogo stregato, in cui succedono cose incomprensibili alla nostra ristretta logica occidentale: le dita di una mano si trasformano in serpenti, le foglie degli alberi diventano banconote per arricchire le piante più povere, mari e monti giocano al tiro alla fune, un anaconda si addormenta solo se avvinto al corpo di un uomo, scimmie fanatiche e tartarughe giganti si aggirano minacciose a presidiare il suolo, di cui da sempre sono legittime padrone.

Tripudio delle acque del Rio amazzonico, e di cascate, torrenti, diluvi scroscianti, laghi profondi e pacifici (“Un lago è un essere solitario che non vuole problemi”), abitati da sirene, bisce, pesci esotici (gamitana, piranha, pirarucu, tucunaré…) e da pescatori che li sventrano ridendo, accerchiati dai volteggi di delfini acrobatici. Tripudio di aria e cielo, con nuvole danzanti che vanno a svernare a New York (“Le nuvole appaiono e scompaiono come se fossero pensieri”), tuoni e fulmini, satelliti, pianeti e stelle così matte da richiedere le cure di uno psichiatra.

L’immaginazione dell’artista, redivivo “Ovidio amazzonico”, rianima le cose morte come nelle fiabe di Andersen, resuscitando miti, leggende, trasfigurazioni miracolose in uno spazio magico, innocentemente sensuale.

Per il vorticoso sovrapporsi di visioni e colori, l’invenzione poetica di Juan Carlos Galeano si potrebbe accostare all’esperienza surrealista, ma in realtà è più vicina ai dipinti naif, agli sgargianti murales sudamericani, a rutilanti caleidoscopi, come nella più rappresentativa delle poesie qui antologizzate, Leticia: “Il sole e le nuvole si giocano a carte il mezzogiorno. / Quando vincono, le nuvole lasciano cadere pesci e delfini nelle strade di Leticia. / (Se perdono, scendono a prendere il sole coi turisti). / I pesci fanno i tassisti e quando scende la notte salgono a dormire tra le stelle. / Nei cortili delle case i delfini suonano la chitarra e fanno innamorare le ragazze. / Il cuore ardente di una nuvola dice che non può più competere con il sole. / Si ubriaca e si butta nel fiume vestito. / Il sole ogni notte fa il mangiatore di fuoco per il circo che viaggia lungo il fiume, / e poi fa il bagno coi delfini e le ragazze”.

 

© Riproduzione riservata          «L’Indice dei Libri del Mese” n. XI – Novembre 2023

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

INTERVISTE

CRISCUOLO

Intervista a Giordano Criscuolo, fondatore di Eretica Edizioni

Intervista a Giordano Criscuolo, fondatore di Eretica Edizioni

Ha pubblicato i romanzi Le parole che non scrivo (2005), Come su un solco di Morrison Hotel (2009), 1000 anni con Elide (2010), All’aurora sulle stelle e altre storie del sottosuolo (2011), Il meraviglioso vinile di Penny Lane (2015), Fiabe sorprendenti per principesse e disobbedienti (2021), Un fatto strano (2023).

 

  • Spinto da quali stimoli intellettuali ha deciso di dedicarsi all’attività editoriale? Che funzione ha avuto nella scelta della sua professione l’ambiente familiare e culturale in cui si è formato?

A sette anni lessi L’Inferno di Topolino e ne fui rapito, illuminato. Capii subito che le lettere avrebbero forgiato la mia vita. Mi chiudevo nella mia stanza, tiravo le tende e, alla luce soffusa di una candela, sfogliavo la Divina Commedia.
Non la comprendevo ovviamente, ma ne ero affascinato. Quelle illustrazioni di Gustavo Dorè, quelle terzine così misteriose, così armoniose… una magia. Tentavo di scrivere anch’io qualcosa e avevo chiesto a mio padre di prestarmi le penne e il calamaio che, conservate amorevolmente, usava ai suoi tempi a scuola: ero entrato nella parte del poeta, ma non sono mai riuscito a scrivere un verso. Eppure per me non era importante scrivere qualcosa, era importante stare lì in quel momento, alla luce di quella candela, fermo, sognante, in attesa. Casa mia era piena di libri e smarrito tra quelle pagine ingiallite ero il bimbo più felice del mondo. Attenzione: io non ero un genio, sia chiaro, quei libri non li leggevo (leggevo i fumetti, non riuscivo a pronunciare la C di ciliegia, correvo con gli amici, guardavo Mazinga e UFO Robot, mi facevo male), semplicemente i libri li sfogliavo e rimandavo coscienziosamente la lettura a quando sarei diventato grande. Mia madre era insegnante, mio padre pittore.
A casa mia si leggeva di tutto, mio padre aveva una cultura vasta, complessa, sofisticata. Studiava i filosofi, lo zen, la medicina cinese, la fitoterapia. Aveva un alambicco da Mago Merlino e, da appassionato erborista, distillava tutte le piante medicamentose e balsamiche del nostro territorio. Ambienti del genere lasciano un segno indelebile, ricordi possenti.

  • Ci può illustrare brevemente la struttura e la storia delle edizioni Eretica, spiegando le motivazioni di un nome così particolare?

Dopo il liceo, affascinato dalle arti di mio padre, mi iscrissi alla facoltà di Erboristeria. La realtà, però, era diversa dalla mia idea romantica e umanistica di verde, natura e pozioni magiche. L’esame di Chimica generale e inorganica mi mise di fronte a un bivio… senza pensarci due volte scelsi la strada del ritorno e rincasai. Una sera, mentre combattevo con i miei pensieri (che ne sarà di me? cosa farò della mia vita?), mio padre entrò nella stanza e mi disse: “Tu canti, suoni, scrivi, leggi. Vuoi iscriverti a Ingegneria?”. Capii allora che il mio mondo era quello delle Lettere e mi iscrissi a Discipline Letterarie. Quel nuovo percorso, dopo varie tribolazioni, mi ha portato a fondare Eretica. Porto il nome della Casa Editrice nel mio. I miei genitori mi chiamarono così in onore di Giordano Bruno. Il nome me lo suggerì mia moglie e rappresenta me stesso con tutta la forza che le parole riescono ad avere.

  • Quante collane sono presenti nel vostro catalogo? Pubblicate anche ebook, e se sì, ritenete che il formato elettronico possa rappresentare un’alternativa vincente rispetto al libro cartaceo? Avete un blog, e come è organizzato?

Attualmente abbiamo una collana di poesia, una di poesia e pittura/fotografia, una di narrativa contemporanea e infine la collana Piccola Biblioteca Eretica, con la quale pubblichiamo grandi autori noti e meno noti del passato.
L’anno scorso abbiamo provato a pubblicare diversi titoli in formato elettronico, ma le vendite sono state del tutto deludenti. Per questo motivo, senza escluderli del tutto per il futuro, abbiamo deciso di sospendere la pubblicazione di ebook. No, non abbiamo un blog ma una bellissima pagina su Instagram.

  • Quali sono le vostre pubblicazioni che hanno ottenuto più riconoscimenti di critica e di pubblico, e secondo lei per quali motivi?

Chi ha polvere spara e I grandi scrittori non mangiano di Donato Montesano e il romanzo Una ferita in fondo al cuore di Anna Danielon sono titoli che hanno venduto molto. Si tratta ovviamente di racconti e romanzi scritti benissimo, letture che riescono a incantare i lettori.
Il vero motivo del loro successo, tuttavia, sta nella smisurata passione di chi li ha scritti. In questi anni abbiamo pubblicato opere bellissime di autori che alla fine si sono dimostrati disinteressati e che a pubblicazione avvenuta sono letteralmente scomparsi. La promozione degli autori, e non solo di quegli autori che pubblicano con piccole Case Editrici come Eretica, ma anche di quelli che hanno la fortuna di pubblicare con i colossi, è vitale.
È tutto. Bisogna inviare i libri ai giornalisti, ai blogger, ai premi letterari, parlare del proprio libro sui social. Una piccola casa editrice da sola può fare veramente poco. La pubblicazione di un libro non è un punto di arrivo ma di partenza.

  • Attraverso quali canali preferenziali riuscite a pubblicizzare i vostri prodotti, e che traguardi vi proponete di raggiungere, a livello di mercato e di incidenza culturale, dato che la lettura è sempre più minacciata da altri e più aggressivi mezzi di comunicazione? Le fiere e le kermesse editoriali servono, o è più efficace la pubblicità sui social e sulla stampa tradizionale?

Per promuovere i nostri titoli, ci avvaliamo principalmente dei Social Network, sfruttando quei pochi mezzi che abbiamo a disposizione.
Sebbene Fiere e Saloni siano indubbiamente importanti, per noi della piccola/media editoria possono rappresentare a volte una spada a doppio taglio: da un lato offrono visibilità, dall’altro si rivelano spesso poco sostenibili dal punto di vista economico. I costi degli stand sono sempre elevati, senza contare quelli relativi agli alloggi, ai B&B, ai viaggi, eccetera.
Pur potendo sembrare monotono e ripetitivo, ritengo che il vero “salone del libro” risieda sul nostro comodino, accanto al letto.


© Riproduzione riservata SoloLibri.net            29 novembre 2023

RECENSIONI

OGAWA

YOKO OGAWA, L’ANULARE – ADELPHI, MILANO 2007

Tradotta in molte lingue, amata e premiatissima in patria, Yōko Ogawa (Okayama,1962) è considerata una delle più importanti narratrici contemporanee giapponesi, esponente della corrente letteraria chiamata “black romanticism”, che esprime un punto di vista cupo e pessimista relativamente alla psicologia e ai sentimenti dei personaggi rappresentati. Le sue opere, perlopiù narrate in prima persona, si situano fra il genere realista e quello fantastico, con una eccedenza di elementi concreti da cui affiorano dettagli surreali, grotteschi o addirittura soprannaturali, comunque decisamente ossessivi e perturbanti. Le trame evitano il sentimentalismo e le situazioni esplicitamente erotiche o sensuali, fornendo spunti di azione a protagonisti alienati dal contesto storico e sociale in cui vivono. Con uno stile minimalista, limpido e descrittivamente puntuale, la scrittrice propone una narrazione scorrevole e priva di pretenziose artificiosità formali. I suoi romanzi e racconti sono stati pubblicati in Italia da Il Saggiatore e Adelphi: presso quest’ultimo editore è uscito nel 2007 L’anulare, che in Giappone aveva visto la luce nel 1994 con grande successo di pubblico.

Come succede prevalentemente nei romanzi e nei racconti di Ogawa, la voce narrante è quella di una giovane donna di cui non viene mai citato il nome, impiegata da un anno presso un misterioso laboratorio situato in un fatiscente ex collegio femminile. La ragazza, in un precedente lavoro come operaia in una fabbrica di bibite, aveva perso la punta dell’anulare sinistro, troncata da un macchinario e sbalzata a decomporsi all’interno di una bottiglietta di gazzosa. Questo antecedente, narrato con fredda indifferenza, nel prosieguo della lettura diventa metafora dell’oscillazione tra dissolvimento e ricomposizione della materia che pervade l’intero racconto. La perdita di una piccola parte del suo corpo non viene metabolizzata come lutto, ma vissuta invece con curiosità: “Un’immagine mi ossessionava: quel pezzetto di carne a forma di conchiglia, rosa come un petalo di ciliegio, tenera come la polpa di un frutto maturo, che cade al rallentatore nella gazzosa ghiacciata per poi restare sul fondo, fluttuando tra le bollicine”.

Il proprietario del laboratorio in cui la protagonista viene assunta, l’inquietante signor Deshimaru, impeccabile nel camice bianco che ne riveste l’asettica correttezza dei gesti e la pacata professionalità dell’eloquio, nell’assicurare alla nuova dipendente ogni garanzia professionale, mette subito in chiaro le proprie richieste di datore di lavoro: gentilezza con i clienti, puntualità, pulizia e discrezione. L’unica mansione spettante alla giovane sarà quella di accogliere gli avventori spiegando loro l’operatività della piccola azienda: custodire in teche trasparenti e sigillate gli oggetti di cui vogliono privarsi senza tuttavia perderli definitivamente, anzi affidandoli alla conservazione in un luogo protetto. Questi “esemplari” deputati alla cura sono testimonianze di vita, memorie di momenti fondamentali dell’esistenza di ogni cliente: “C’erano esemplari di ogni genere: bulbi di giacinto, anelli magici, calamai, forcine per capelli, carapaci di tartarughe, giarrettiere”. Una signora elegante chiede di immagazzinare il suono di un pezzo pianistico dedicatole dal fidanzato, un anziano vuole proteggere lo scheletro del fringuello che per molti anni gli aveva fatto compagnia col suo canto, una ragazzina desidera mantenere intatti tre funghi nati dalla cenere dell’incendio della sua casa, in cui erano morti i suoi genitori e un fratellino. La stessa adolescente in seguito chiederà di preservare la cicatrice della bruciatura che in quella tragedia le aveva inciso la guancia.

La cura maniacale con cui il signor Deshimaru si occupa della preparazione e catalogazione degli esemplari nelle stanze sotterranee a lui solo accessibili, è un indizio del suo feticismo per tutti gli oggetti, ad esempio per le scarpe che regala alla giovane dipendente, irretendola in una relazione sessuale prevaricante e nascondendole i lati più tenebrosi della sua attività. L’atmosfera gelida e ovattata del laboratorio in cui si svolge la vicenda, viene perfettamente resa dalla scrittura razionalmente distaccata di Yoko Ogawa, che esprime la sua analitica imperturbabilità soprattutto nella descrizione dettagliata di cose e ambienti, lontana da qualsiasi adesione emotiva. L’inatteso sacrificio finale della protagonista turba il lettore, interrogandolo sul significato della sostenibilità del dolore, della separazione da ciò che si è amato, della ferocia perturbante del ricordo, espressi nel desiderio di conservare per sempre almeno una traccia della propria sofferenza.

 

© Riproduzione riservata         «Gli Stati Generali», 26 novembre 2023

 

RECENSIONI

VANNINI

MARCO VANNINI, SULLA RELIGIONE VERA. RILEGGERE AGOSTINO – LINDAU, TORINO

 Il filosofo Marco Vannini (San Piero a Sieve, 1948) ha curato la traduzione italiana di tutte le opere, tedesche e latine, di Meister Eckhart, nonché di altri mistici antichi, medievali e moderni, dedicando loro numerosi studi. Autore di un’edizione bilingue del De vera religione di Agostino (2012) e di un Invito al pensiero di sant’Agostino (2014), nella sua ultima pubblicazione edita da Lindau si occupa ancora del Padre della Chiesa di Tagaste, con un volume intitolato Sulla religione vera. Rileggere Agostino, rielaborazione de La religione della ragione, uscito da Bruno Mondadori nel 2007.

Due sono le tesi fondamentali di questo nuovo saggio: che la Verità risieda all’interno dell’animo umano e che la fede cristiana coincida con la filosofia. Esaminiamo quindi questi concetti-base del volume, così come Vannini va analizzandoli nel corso delle pagine. Nell’estesa introduzione, l’autore stigmatizza il relativismo contemporaneo che induce le persone a crearsi delle credenze, sia in ambito religioso che in quello filosofico, sulla base di inclinazioni, valori e bisogni personali, avendo a progetto di vita esclusivamente la ricerca di una aleatoria felicità individuale, come viene suggerito da un diffuso ed effimero psicologismo, che non riconosce altre realtà se non il raggiungimento del benessere fisico e mentale della persona. Da questa rincorsa alla soddisfazione materiale derivano non solo le inquietudini e le fragilità che caratterizzano la società contemporanea (nonostante il proliferare di terapie, addestramenti e dottrine di ogni tipo), ma anche “lo svilimento del cristianesimo verso un banale umanesimo e filantropismo, con la perdita progressiva dell’elemento suo proprio di rinascita nello spirito”.

Parlare nel contesto attuale di “religione vera” e di “filosofia vera”, può richiamare negativamente un’idea di fondamentalismo, di fideismo acritico e intollerante. In realtà religione e filosofia sono attività rivolte allo stesso fine, cioè alla saggezza e conoscenza di sé, che esige una radicale conversione per la ricerca del Bene, da perseguire attraverso il rientro in sé stessi, nel distacco da ciò che è accidentale e molteplice, da ogni elemento legato al tempo e allo spazio, dalla dittatura del corpo e dalle esigenze esteriori imposte dalle mode sociali. Il raggiungimento della verità non dipende dall’obbedienza ai testi sacri e alle autorità ecclesiali, da liturgie e cerimonie formali, ma si ottiene con la rimozione dell’inessenziale, per recuperare la luce interiore, quella dello spirito, dell’Uno e dell’Eterno, seguendo la via che l’insegnamento neoplatonico, attraverso Agostino, ha introdotto nel mondo cristiano.

Il primo capitolo del volume, dedicato alla filosofia antica, presenta un denso excursus sul pensiero classico. Tutti i filosofi greci, dai Presocratici fino ai Neoplatonici, si proposero di indicare, più che un sistema teorico, un modello e un indirizzo di vita in grado di condurre alla saggezza, alla serenità, alla contemplazione dell’Eterno, impegnando l’intera esistenza in vista di una sua trasformazione. A partire dalle dottrine di purificazione di Pitagora, attraverso il severo richiamo socratico alla giustizia posta al di sopra di ogni contingenza storico-politica, si arriva a Platone che insegnava come filosofare fosse “esercitarsi a morire”, lontano da tutti i legami materiali e concettuali, per ascendere gradatamente dalla bellezza sensibile a quella intelligibile, fino alla contemplazione della luce immutabile che è il Bene in sé. Anche tutte le scuole post-aristoteliche ellenistiche e romane (epicurea, stoica, cinica, scettica, neoplatonica) declinarono in modi diversi la stessa esperienza: attraverso la pratica di esercizi spirituali e l’uso della temperanza e della continenza, si procede da una visione delle cose dominata dalle passioni individuali a una rappresentazione del mondo governata dall’universalità e dall’oggettività del pensiero. Plotino ammoniva “distàccati da tutto” (Áphele pánta) per approfondire la conoscenza interiore, che conduce alla comunione con tutti gli uomini e le cose, e attraverso l’ékstasis, all’Uno, fine ultimo, luce e perfezione.

Il secondo capitolo del volume esplora il concetto di religione nel suo duplice aspetto di mitologia e di mistica, da quando essa si confondeva con la magia e la superstizione, e veniva praticata per ricavarne benefici individuali o collettivi, fino a quando il cristianesimo dei primi secoli entrò in contatto con il mondo greco, assorbendone il concetto di filosofia intesa come meditazione, insegnamento e guida per l’esistenza. Di questo traghettamento dalla credulità popolare a un concetto più spirituale del divino fu artefice soprattutto Agostino (Tagaste, 354-Ippona, 430), negli anni giovanili profondamente influenzato dal pensiero scettico e neoplatonico che esortava a cercare nella propria interiorità la luce eterna di Dio. Nel testo De vera religione (389-391) scriveva infatti: “non uscire fuori di te, rientra in te stesso, la verità abita nel profondo dell’uomo”, ricalcando una terminologia decisamente plotiniana. In età più matura e rivestendo l’incarico di vescovo, Agostino privilegiò un’interpretazione della Bibbia e delle lettere di Paolo più fedelmente vicina alle proposizioni teologiche del cattolicesimo a lui contemporaneo, ergendosi ad accanito difensore della Scrittura. Non considerò più la religione subalterna alla filosofia, ma essa stessa Logos, essa stessa unica e vera filosofia. L’esperienza neoplatonica dell’identità spirituale uomo-Dio-cosmo, animata dal desiderio di unione mistica con il divino, venne così abbandonata in favore della visione biblica dell’alterità di Dio, secondo un’interpretazione puramente scientifico-teologica della Parola che ridusse il cristianesimo a dogmatismo, formalità rituali e pura esegesi dei testi sacri.

La critica di Marco Vannini alla pretesa storicità della Bibbia è implacabile, poiché ritiene i fatti in essa raccontati (a partire dalla Creazione) suggestive creazioni letterarie, la cui attendibilità è inficiata da incongruenze e contraddizioni, evidenziate in rigorosi studi epistemologici degli ultimi due secoli. L’Antico e il Nuovo Testamento sono il risultato di rielaborazioni create a partire dal VII secolo a.C. e protrattesi fino al II d.C, per imporre politicamene l’unicità di un dio, di un culto, e di un unico centro religioso, attraverso regole comportamentali, leggi sociali e fantasie apocalittiche che hanno finito per nutrire intolleranza e fanatismo, mettendo in secondo piano l’idea di spiritualità, di unione con il divino, di immortalità dell’anima. Le tesi coraggiose dell’autore, che molti esegeti ortodossi non esiterebbero a definire eretiche (un plauso alle edizioni di ispirazione cattolica Lindau che hanno pubblicato il volume), sottolineano come l’allontanamento dal pensiero filosofico greco abbia relegato il cristianesimo in una concezione materialistica e utilitaristica, immiserente anziché liberante.

Sarà il misticismo speculativo medievale a recuperare la preziosa eredità del pensiero classico, e appunto al misticismo Vannini dedica l’appassionata ultima parte del libro. Massimo esperto italiano degli scritti di Meister Eckhart, qui lo studioso toscano inizia invece la sua esposizione presentando la figura del castigliano San Giovanni della Croce (1542-1592), anch’egli profondamente debitore del neoplatonismo: solo dopo aver sperimentato la “notte oscura” del nulla, del vuoto, l’anima può risalire alla luce, connaturandosi a Dio che non è più oggetto di conoscenza, alterità alienante, idolo antropomorfico, ma puro spirito, unica identità con l’anima umana che si divinizza, diventando Dio e partecipando della sua luce. Tale percorso di salvezza per il carmelitano spagnolo può attuarsi solo con la rinuncia e il distacco da tutto, esattamente come insegnava Plotino: “la sostanza dell’anima, unita a Dio, assorbita in lui, è Dio per partecipazione di Dio”.

Nella storia del cristianesimo i mistici, accusati di sopprimere la distinzione tra uomo e Dio, furono emarginati, poco compresi e guardati con sospetto: eppure eliminando l’opposizione tra soprannaturale e naturale, tra divino e umano, hanno insegnato una verità riconosciuta anche dalle religioni orientali e dalla filosofia, cioè l’identità del Tutto, e dunque del divino nel cosmo e in tutti gli esseri, che tutti esistono in Dio. Lontana dal panteismo che appiattisce la trascendenza divina sulla natura, la religione vera supera l’alterità di Dio e il dualismo soggetto-oggetto, unificando tutte le creature in un solo essere, spiritualmente eterno, scevro dai vincoli della materia e della carne nell’unità relazionale con il Tutto. Libera dalla volontà, libera dall’attaccamento, e dunque libera dall’opinione, la luce dell’intelligenza illumina il Tutto. La mistica ha mantenuto viva questa verità, con l’esperienza di un modello di vita filosofico, del distacco, della grazia, della libertà, opposto alla vita nella servitù, nella forza, nella volontà e nel desiderio. Non occorrono perciò rivelazioni o visioni particolari, dogmi o encicliche, perché è il quotidiano, il qui e l’ora, con le cose presenti di fronte a noi, a costituire il divino così come si mostra al nostro sguardo e al nostro amore.

 

© Riproduzione riservata           «Gli Stati Generali», 20 novembre 2023

 

MAESTRI

OLIVER

IL SOGNO

 

Solo una volta, e in sogno,

ho osservato una mucca mentre, segretamente

e con la tenerezza di ogni donna amorevole,

dava alla luce

un vitello rosso, lo asciugava con la lingua e lo allattava

in un angolo caldo

della notte tersa

nell’erba fragrante

nei domini selvaggi

della primavera della prateria, e ho chiesto loro,

in sogno mi sono inginocchiata e gli ho chiesto

di farmi un po’ di spazio.

 

                                                                                                                             Mary Oliver (1935-2019)

 

INTERVISTE

VALLORTIGARA

GIORGIO VALLORTIGARA E LA POESIA

Giorgio Vallortigara (Rovereto 1959) è professore ordinario di neuroscienze all’Università di Trento ed è stato Adjunct Professor presso la School of Biological, Biomedical and Molecular Sciences dell’Università del New England, in Australia. Si è particolarmente interessato alla cognizione numerica e alla predisposizione biologica al riconoscimento di agenti animati in vari modelli animali. È autore di più di 300 articoli scientifici su riviste internazionali e di libri a carattere divulgativo: Cervello di gallina (Bollati-Boringhieri, 2005), Cervelli che contano (Adelphi 2014), Pensieri della mosca con la testa storta (Adelphi 2021), Il pulcino di Kant (Adelphi 2023). Oltre alla ricerca scientifica svolge un’intensa attività di divulgazione, collaborando con le pagine culturali di varie testate giornalistiche e riviste.

 

 

  • Nel volume Lettere dalla fine del mondo. Dialogo tra uno scrittore che voleva essere uno scienziato e uno scienziato che voleva essere uno scrittore, pubblicato da La nave di Teseo nel 2021, lei affermava che tre attività umane le stanno profondamente a cuore oltre alla scienza: l’arte, la musica, la scrittura. Tra di esse, quale predilige con particolare partecipazione emotiva?

Senza dubbio la scrittura, anzi più precisamente la lettura. Sono un lettore vorace di romanzi ma anche di poesia. Non trovo che ci sia una differenza fondamentale con l’attività scientifica perché anche nella scienza si tratta di narrare delle storie. Certo la plausibilità della narrazione scientifica deve essere fondata sui fatti e la sua oggettività risiede nella intersoggettività delle osservazioni e degli esperimenti. La narrativa letteraria rappresenta invece un punto di vista unico e originale, quello del narratore. Forse per questo io la considero privilegiata rispetto al lavoro dello scienziato. Il tema della narrazione mi interessa anche dal punto di vista scientifico. Perché gli esseri umani sono così affascinati dalle storie? Si tratta evidentemente di un fenomeno biologico, perché è un universale della natura umana: dovunque ci sono stati esseri umani ci sono stati aedi, cantori, raccontatori di storie e poeti. La passione per le storie è ovviamente al servizio (o il sottoprodotto) della cosiddetta teoria della mente, la nostra peculiare abilità di interpretare i comportamenti degli altri individui attribuendo loro degli stati mentali (lui crede che, lei desidera che…), ma forse è anche un modo per fronteggiare la finitudine delle nostre vite. Come diceva Pessoa, «Leggo perché la vita non mi basta».

 

  • Sempre nella stessa stimolante conversazione con Massimiliano Parente, sosteneva che lo sguardo scientifico non distrugge la bellezza delle cose, ma semmai rende più consapevoli della loro ragion d’essere. Le capita di osservare un fenomeno naturale, un insetto, un albero, e soprattutto di leggere una poesia senza indagarla con la curiosità dello scienziato, ma semplicemente lasciandosi trasportare da una sensibilità di carattere sentimentale?

L’aspetto che lei chiama sentimentale in effetti è il più razionale, perché ha a che fare con l’esperienza cosciente, quindi inevitabilmente è anche quello dello scienziato. Il tipo di sguardo cui lei allude è forse quello dei sogni o della rêverie, dove è l’inconscio a farla da padrone. Lì pare essere collocata la fonte della rivelazione creatrice – che si esprima poi in un brano musicale, in un romanzo, in un esperimento scientifico o in una formula matematica poco importa. Il vero mistero, come ha notato recentemente lo scrittore Cormac McCarthy, è perché l’inconscio debba usare questi mezzi indiretti per comunicare: la metafora, l’allusione, l’immagine fugace… Non potrebbe fornirci in chiaro i suoi messaggi?

  • Scrittori e poeti: quali sono quelli a cui ritorna più frequentemente, con attenzione grata?

Sono sempre a disagio con questo tipo di domande, perché non voglio essere indelicato con qualcuno degli autori che amo scordandomi di menzionarlo. Quindi, solo perché forzato a farlo, dico due nomi: Borges per la prosa e Montale per la poesia. Perché? Forse perché tutti e due hanno «parlato» la scienza senza saperne alcunché, il che è quasi magico! Invece parlo più volentieri dei libri che ho appena letto o che ho sul comodino in questo momento. L’ultimo (e finale) McCarthy, Stella Maris (Einaudi) che è strepitoso, e la raccolta di Tutte le Poesie (Einaudi) di Giovanni Raboni, che confesso non conoscevo (“Le volte che è con furia che nel tuo ventre cerco la mia gioia è perché, amore, so che più di tanto non avrà tempo il tempo…”), ma anche ho trovato incantevole Ultima estate a Roccamare di Alberto Riva (Neri Pozza). Poi quei poeti che (inconsapevoli?) parlano a noi scienziati, per esempio Andrea Bajani in Dimora naturale che si fa neurobiologo (“In queste settimane tutti parlano / dei polpi, avrebbero il vantaggio / di un cervello non localizzato, / distribuito dappertutto. Pensavo / fossimo gli unici imperfetti / condannati dalla massa cerebrale. / Sono umani in stato terminale: / il farabutto si è metastatizzato”) o Gilda Policastro che si fa statistica matematica (“Non esce quel numero, / nessuno lo estrae: sceglie te / la statistica, il numero che sei / quando a decidere è l’ultimo crunch”). Potrei proseguire, meglio se mi fermo…

 

  • Commentando un po’ ironicamente, e da profana, il suo ultimo libro (Il pulcino di Kant, Adelphi 2023), in cui esamina approfonditamente la nascita e l’evoluzione della conoscenza nel cervello umano e animale, le chiedo se ritiene la predisposizione verso la scrittura poetica una dote innata o acquisita. Perché in alcuni adolescenti si manifesta spontaneamente, senza predisposizioni di tipo culturale assimilate in ambito familiare o scolastico, e altri invece sono totalmente sordi al richiamo della poesia?

Credo sia innata, ma ammetto di non averne le prove. Un po’ tutti questi talenti – per la musica, la matematica, la poesia – si manifestano precocemente e sovente in assenza di istruzioni specifiche. I poeti sono “nati imparati”, come si dice a Roma. Questo naturalmente non ci esime dal dovere di cercare di far accostare alla poesia i giovani a scuola e gli adulti anche altrove. Un mio collega, Emanuele Castano, uno scienziato cognitivo che si occupa degli esiti della familiarità con la lettura della narrativa letteraria di contro a quella di intrattenimento, ha mostrato come nel primo caso si affini sensibilmente la nostra capacità di cogliere e leggere gli stati mentali degli altri. Però c’è qualche controindicazione, perché non necessariamente questa acutezza psicologica rende più felici le nostre vite personali. I poeti lo sanno.

 

  • Ci può citare qualche verso che ricorda a memoria?

Nulla di terribilmente originale, ma tutte le mattine quando, passeggiando, specie in autunno, mi capita di avere il barbaglio dei raggi del sole negli occhi, mi viene automatico di recitare Montale: E andando nel sole che abbaglia / sentire con triste meraviglia / com’è tutta la vita e il suo travaglio / in questo seguitare una muraglia / che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia. Oppure, per immaginare di essere fieramente un uomo del Mezzogiorno anziché sommessamente tridentino, con accento imbarazzante recito senza cantarlo il testo di Luna Rossa di Vincenzo De Crescenzo: Vaco distrattamente abbandunato / ll’uocchie sott’ ‘o cappiello annascunnute / mane ‘int’ ‘a sacca e bávero aizato / Vaco siscanno ê stelle ca só’ asciute.

 

 

© Riproduzione riservata             «Gli Stati Generali», 17 novembre 2023

 

RECENSIONI

FIORE

VINCENZO FIORE, EMIL CIORAN – NULLA DIE, PIAZZA ARMERINA 2018

Nel 2018 la casa editrice siciliana Nulla Die ha pubblicato il volume di Vincenzo Fiore Emil Cioran. La filosofia come de-fascinazione e la scrittura come terapia. Vincenzo Fiore (Solofra, 1993) è un giovane filosofo e romanziere, collaboratore di riviste e quotidiani, membro del Progetto di ricerca internazionale dedicato a Emil Cioran. A buon diritto, e con assoluta competenza e passione, ha firmato questo esaustivo saggio, ricchissimo di note, corredato da una bibliografia e da un’appendice riportante una lettera autografa del filosofo romeno, tre ritratti fotografici e un articolo della giornalista venezuelana Carol Prunhuber.

Il libro si compone di tre capitoli, il primo dei quali ripercorre l’esistenza di Cioran dalla nascita in Transilvania nel 1911 alla morte a Parigi nel 1995: interessantissimo perché oltre a informare il lettore in maniera dettagliata su ogni avvenimento pubblico e privato della sua travagliata esistenza, garantisce puntualmente la veridicità dei fatti con testimonianze ricavate da lettere, interviste, brani tratti dalla sua produzione libraria e da interventi critici dei molti studiosi che di lui si sono occupati.
La parallela distribuzione tra notizie biografiche e il pensiero di Cioran è supportata proprio da un’affermazione del filosofo: “Tutto ciò che ho affrontato, tutto ciò di cui ho discorso per tutto il tempo della mia vita, è indissociabile da ciò che ho vissuto. Non ho inventato nulla, sono stato soltanto il segretario delle mie sensazioni… In fondo, tutti i miei libri sono autobiografici, ma di un’autobiografia mascherata”.

Nato a Rasinari, un villaggio di cinquemila abitanti situato nei Carpazi, Emil Cioran era il secondogenito di una famiglia istruita benché di modeste condizioni economiche. Il padre era prete ortodosso, e venne arrestato dalle autorità ungheresi insieme alla moglie con l’accusa di separatismo. L’infanzia di Emil fu quindi tormentata, tra separazioni e frequenti trasferimenti, e continuamente ossessionata dall’idea della morte, soprattutto a causa della sua acuta sensibilità, portata all’introspezione e alla malinconia. “Tanta febbre, tanta estasi e tanta follia”, ebbe a scrivere ricordando i suoi turbamenti giovanili, lo smarrimento di fronte agli avvenimenti politici, la sofferenza continua per l’insonnia, lo studio esaltato di argomenti religiosi – in particolare sul misticismo medievale -, di musica, di lingue straniere. Laureatosi nel 1932 con una tesi sull’intuizionismo di Bergson, l’anno successivo pubblicò il suo primo libro in lingua romena, Al culmine della disperazione, che metteva in luce la sua angoscia per la futilità della vita, il totale nonsenso di ogni attività quotidiana, la corruzione morale dell’essere umano. In quegli anni giovanili, si avvicinò a posizioni reazionarie e antisemite, convinto che l’ascesa al potere di Hitler potesse risvegliare la Romania dallo stato di abbrutimento politico ed etico in cui si era assopita per secoli, grazie a una sorta di trasfigurazione che dovesse favorire l’avvento di una “nuova umanità”. Tali posizioni ideologiche furono poi rinnegate dal filosofo con vergogna e pentimento, soprattutto dopo il suo volontario esilio in Francia a partire dal 1940.

Da questa data in poi, l’esistenza di Cioran non conobbe eventi biografici particolarmente traumatici, essendo totalmente dedicata alla riflessione filosofica e alla scrittura. Nel 1942 conobbe Simone Boué, giovane insegnante che rimase al suo fianco per tutta la vita, con cui alla fine della guerra si stabilì definitivamente a Parigi con lo statuto di apolide, adottando la lingua francese nella comunicazione quotidiana e in ogni scritto. Ritornato sulle posizioni teoretiche della sua giovinezza, addirittura radicalizzate, diede avvio a una personale crociata intellettuale contro il cristianesimo, la filosofia classica e le ideologie contemporanee. Con uno stile che lo assimilava a Nietzsche, non scrisse trattati sistematici, servendosi invece di aforismi e frammenti di prosa, rifiutando sia ogni rigida strutturazione sia qualsiasi artificio linguistico. Nel negare autenticità ai filosofi dogmatici e agli accademici, Cioran affermava che esistono solo due grandi questioni gnoseologiche: come sopportare la vita e come sopportare se stessi. L’unica pratica filosofica esercitabile era per lui lo scetticismo, come de-fascinazione, eliminazione di tutte le ideologie e astrazioni concettuali, in favore del vissuto rispetto alla teoria. Gli obiettivi polemici che il filosofo si pose furono quelli della negazione della Provvidenza e di un Dio creatore e benefico (Il funesto demiurgo, 1969), il contrasto al fanatismo ideologico e al totalitarismo, lo scandalo della nascita, ancora più dolorosamente negativa della morte (L’inconveniente di essere nati, 1973). Il totale pessimismo del suo pensiero lo avrebbe probabilmente condotto al suicidio già in giovane età, se non avesse trovato nella scrittura una partica auto-terapeutica che serviva a differire l’idea punitiva della fine volontaria.

Il merito di Vincenzo Fiore è di aver saputo ricostruire, attraverso un linguaggio accessibile a tutti, lineare ed elegante, evoluzioni e involuzioni del pensiero di Cioran, appoggiandosi non solo alla propria appassionata interpretazione, ma anche alle numerose e approfondite analisi di critici non sempre benevoli verso le provocatorie e polemiche tesi dell’antifilosofico filosofo romeno.

 

© Riproduzione riservata          SoloLibri.net      16 novembre 2023

 

RECENSIONI

BERNHARD

THOMAS BERNHARD, CEMENTO – SE, MILANO 2023

Pubblicato in Germania nel 1982, e per la prima volta da Studio Editoriale nel 1990, dopo numerose ristampe ritorna oggi sul mercato Cemento, uno degli ultimi romanzi scritti da Thomas Bernhard (1931-1989). Il volume è corredato da ricche note biobibliografiche, da un’interessante appendice fotografica e soprattutto da un’approfondita ed esaustiva postfazione del compianto germanista Luigi Reitani, che ricostruisce sapientemente non solo le motivazioni letterarie ed extra-letterarie alla base della sua elaborazione, ma anche le polemiche con cui venne accolto dalla critica.

Non si tratta di un’autobiografia, sebbene siano presenti episodi della vita dell’autore, ma di una confessione monologante messa per iscritto da un intellettuale austriaco di mezz’età, il cui nome viene riportato solo all’inizio e alla fine del volume, sempre con lo stesso sintagma: “scrive Rudolf”. In effetti il protagonista sembra non saper fare altro che scrivere, persino nel momento in cui riconosce di non riuscire a scrivere. Né a scrivere né a vivere, con gli altri, tra gli altri, per gli altri. La sua è una storia di solitudine e nevrosi (che gli psichiatri definirebbero compulsiva), di frustrazione per la propria inettitudine, di rancore nei riguardi della famiglia e della società, di complessi di colpa per non essere stato all’altezza delle sue aspirazioni: sempre in preda a manie persecutorie, ambizioni smodate, ipocondria ossessiva.

Rudolf, secondogenito di una ricca e aristocratica famiglia austriaca, dopo la morte dei genitori si rinchiude nella dimora ereditata nel paesino di Peiskam, con l’unica saltuaria compagnia di una domestica fedele e discreta, e sotto l’opprimente controllo della sorella maggiore Elisabeth, esercitato sia a distanza dalla residenza viennese, sia negli occasionali e irritanti soggiorni nella comune proprietà di campagna. Dopo aver tentato studi filosofici, giuridici e scientifici senza riuscire ad arrivare alla laurea, Rudolf decide di dedicare la propria esistenza alla musicologia, impegnandosi in studi critici sui maggiori compositori classici. In particolare, le sue ricerche d’archivio, postillate da una grande mole di appunti e tracce programmatiche, riguardano la stesura di un saggio su Mendelssohn Bartholdy, in gestazione da molti anni, ma incagliata sin dall’avvio per la difficoltà di affrontare la frase iniziale.

Intorno al tema della scrittura che non è in grado di scriversi ruota tutto il romanzo. L’io narrante elenca ossessivamente ogni pretesto che gli impedisce di sbloccarsi: dal cattivo funzionamento di una lampada ai rumori distraenti, dai malesseri fisici alla presenza castrante e indisponente della sorella. Elisabeth, al contrario del fratello, è un’imprenditrice di successo nel campo immobiliare; donna di mondo, elegante, concreta, disinvolta nei rapporti sentimentali e d’affari, tratta Rudolf con ironica supponenza mista a compassione. Da lui considerata volgare, sciocca e perfida, viene tuttavia temuta: “Lei guidava i miei passi e al tempo stesso ottenebrava la mia mente… A me fanno schifo i suoi affari, a lei fa schifo la mia fantasia, io disprezzo i suoi successi, lei disprezza la mia mancanza di successo”.

La partenza della sorella toglie al protagonista l’ultimo alibi per non dare inizio al lavoro, e insieme lo induce a recriminare sui motivi del proprio fallimento esistenziale. Proclama la sua sfiducia nel genere umano, il disinteresse per la natura, la disillusione verso l’amore e l’amicizia (“che parola pustolosa!”). Pur avendo viaggiato moltissimo nella giovinezza, ora considera lo spostarsi di casa una fatica dispendiosa. Della solitudine in cui ama crogiolarsi incolpa la società viennese, l’aristocrazia e il popolino, l’accademia e la stampa, i politici e gli intellettuali, la Chiesa e il socialismo, la tradizione e la modernità: Vienna “cloaca d’Europa” reagirà con astio e fastidio, attraverso una campagna giornalistica persecutoria, all’esplicita ostilità dichiarata nel nuovo testo di Bernhard, ricalcante i suoi precedenti lavori narrativi e teatrali.

Nauseato da tutto, e principalmente da se stesso, Rudolf decide di provare a recuperare la salute precaria e di abbozzare finalmente il saggio su Mendelssohn trasferendosi a Palma di Maiorca, che già in passato lo aveva ospitato con gentilezza e premura. I preparativi per la partenza appaiono assillanti nella loro minuziosità, e provocano nel lettore un effetto esilarante per la descrizione puntigliosa e maniacale dell’allestimento dei bagagli.

Sullo sfondo della località iberica, le ultime trenta pagine il romanzo prendono una piega inaspettata, pur rimanendo vincolate alla forma del monologo descrittivo. Dopo aver preso possesso della stessa lussuosa camera d’hotel già occupata in passato, Rudolf rievoca l’incontro avvenuto due anni prima con una ragazza tedesca, che gli aveva raccontato della disperazione priva di prospettive in cui si trovava, a causa della tragica morte del marito precipitato dalla terrazza del loro fatiscente albergo, e tumulato in fretta e di nascosto nel cimitero cittadino. Informato già nei primi giorni di vacanza del successivo suicidio della giovane vedova, il ricordo tormentante dell’angoscia di lei mette fine alla sua illusione di potersi dedicare alla stesura del saggio musicale, e lo cementa in un’atonia priva di slanci, condannata di nuovo a una spietata autoanalisi priva di assoluzione.

La straordinaria abilità narrativa di Thomas Bernhard si esprime nell’esplorazione dei labirintici percorsi di un pensiero psicotico, nella ricostruzione di temi e atmosfere tipiche della propria narrativa (la dissoluzione di un ambiente culturale, l’ambivalenza distruttiva dei rapporti familiari, la polemica contro il perbenismo claustrofobico della borghesia austriaca), e nell’esasperazione di formule volutamente intese a creare effetti ironici e stranianti (ripetizioni, intercalari e  sottolineature del parlato).  Anche in Cemento l’autore austriaco esibisce la stessa modalità espressiva livida e sarcastica delle prove maggiori, mettendo in luce i nodi e le rigidità caratteriali ereditati dalla sua sofferta vicenda biografica, che hanno fatto di lui un maestro di scrittura autoreferenziale e ferocemente sovversiva.

 

© Riproduzione riservata               «Gli Stati Generali», 11 novembre 2023