WALTER BARBERIS, STORIA SENZA PERDONO – EINAUDI, TORINO 2019

Gli evangelisti Matteo e Luca raccomandavano il perdono: “perdonare fino a settanta volte sette”, “perdonate e sarete perdonati”. Ma si può perdonare la malvagità gratuita, la crudeltà senza scopo, l’efferatezza di un delitto, o (in termini collettivi e non solo privati), la disumanità di una guerra, la ferocia di una strage, l’ingiustificabile e assurda spietatezza della persecuzione e dello sterminio degli ebrei avvenuto nella II guerra mondiale?

Nel 1971 il filosofo e musicologo francese di origini russo-ebraiche Vladimir Jankélévitch aveva commentato la pagina più agghiacciante della storia novecentesca in un volume provocatoriamente intitolato “Perdonare?”. La sua vibrante e appassionata risposta negativa a quel doloroso quesito era stata urlata con la rabbiosa indignazione di tutte le vittime innocenti: “Il nostro risentimento, la nostra incapacità di liquidare il passato… non si chiama rancore, ma orrore”. Negando ai colpevoli qualsiasi possibilità di venire amnistiati, assolti, dimenticati, concludeva: “Il perdono! Ma ci hanno mai chiesto perdono?”

Walter Barberis (Torino, 1950), storico, editore e docente universitario, nel suo saggio Storia senza perdono riprende le tesi di Jankélévitch in maniera meno viscerale e più teoricamente meditata, interrogandosi nello specifico sul ruolo dei testimoni diretti della Shoah, sul loro imprescindibile coinvolgimento nella tragica vicenda dell’olocausto, e sugli inevitabili episodi di censura, autocensura, rimozione che possono aver influito nelle loro deposizioni. Già Primo Levi, a cui l’autore riconosce il merito e il coraggio di avere squarciato il silenzio sui “sommersi e salvati” nei lager, aveva avuto l’onestà di ammettere che non sempre i ricordi dei sopravvissuti a un massacro sono affidabili. “La memoria è uno strumento meraviglioso, ma fallace”, aveva scritto.

Barberis sottolinea quanto le ricostruzioni di un passato angoscioso possano risultare instabili, deviate da vergogna, pudore, sensi di colpa, versioni consolatorie, romanzesche o addirittura autocelebrative: proprio perché individuali e soggettive. Elenca una serie di volumi scritti da impostori che millantavano false biografie, impossessandosi di uno “statuto vittimario che non era il loro”, e rischiando così di inficiare la legittima ricerca della verità e di inquinare il valore stesso delle testimonianze acquisite.

Se il processo di Norimberga era rimasto imbrigliato in un esame burocratico di documenti impersonali di scarsa risonanza emotiva, quello di Gerusalemme a Adolf Eichmann del 1961 riuscì a dare voce all’orrore dei campi di sterminio, esibendo pubblicamente sia le sofferte dichiarazioni degli scampati sia le spietate immagini fotografiche dell’abominio nazista.

Da allora moltissimi romanzi, film, opere teatrali e programmi televisivi hanno avuto il merito non solo di informare il grande pubblico, ma anche di turbarlo, di farlo indignare e di proporgli interrogativi ineludibili. Ma “oltre una palpitante emozione, c’è bisogno di tanta ragione”, ed è quindi compito della storia operare una ricerca e un’analisi puntuale, asciutta, non retorica sui sintomi, le manifestazioni e le cause dell’antisemitismo e del razzismo che hanno portato alla persecuzione contro gli ebrei, in modo da creare una memoria collettiva capace di evitare il ripetersi in futuro di eccidi ed efferatezze simili.

Un’indagine storica che voglia essere accurata e incisiva non deve occuparsi solo delle vittime, ma deve riguardare anche i persecutori, i carnefici, gli aguzzini; senza tralasciare i neutrali, gli indifferenti, gli “ubbidienti per tradizione, per conformismo o per paura”, che con la loro tacita e vile acquiescenza hanno permesso che accadesse l’irreparabile. Altrimenti si potrebbe correre il rischio, insistendo esclusivamente sul sacrificio degli innocenti, di una sacralizzazione della vittima, di una sua rappresentazione come modello cristologico di agnello sacrificale, con una sovraesposizione mediatica fuorviante e controproducente.

Sarebbe invece opportuno esaminare senza indulgenze e remore il perché di un silenzio sulla Shoah durato circa dieci anni dopo la fine della guerra, partendo dall’incredulità iniziale dei contemporanei ignari, per passare alla loro volontà di occultare e dimenticare un passato compromettente, e concludere poi con il reale disinteresse per un dramma che non li coinvolgeva direttamente.

Poiché i testimoni oculari dell’Olocausto stanno progressivamente scomparendo, potremmo rischiare oggi l’oblio di un esiziale crimine storico, “flagello europeo più pericoloso e mortale della peste”, che deve invece essere continuamente rievocato e fatto conoscere alle nuove generazioni, in modo che nessuno possa permettersi di negare, relativizzare o assolvere. Walter Barberis è perentorio nel declinare ogni proposta di assoluzione o conciliazione con il regime nazista. Storia senza perdono è il titolo del suo libro.

 

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https://www.sololibri.net/Storia-senza-perdono-Barberis.html     31 ottobre 2019