THOMAS BERNHARD, AVE VIRGILIO. CARME – GUANDA, MILANO 2017

Con la traduzione di Anna Maria Carpi, Guanda pubblica una raccolta di Thomas Bernhard scritta tra il ’59 e il ’60 (quando l’autore trentenne cercava scampo alle sue angosce al di fuori dagli asfittici confini del suo paese), e inconsciamente dimenticata o consapevolmente sepolta in qualche cassetto per più di vent’anni.  Ave Virgilio è un Carme suddiviso in sette sezioni, che di bucolico ha solo il riferimento classico del titolo, su uno sfondo però rabbioso di pascoli montani, stalle e contadini, malinconiche feste di paese, culti e riti più superstiziosi che devoti: tutto l’armamentario culturale che caratterizza la produzione letteraria di Thomas Bernard, «profeta dei deformi», cantore rancoroso e blasfemo di una natura terribilmente inclemente nei riguardi delle sue creature.

Il grumo di dolore che attraversa queste pagine esplode nello spasimo livido di astio per la condanna di un’origine orgogliosamente esibita e altrettanto spietatamente rigettata: «La mia parola scelse / pecore, porci, abbatté manzi pregni, / bevve dalla groppa della vacca…/ in millenari libri / l’aratro di mio padre sfigurò le costellazioni». L’aratro come la penna, il padre come ogni autorità – letteraria, medica, politica o religiosa – capaci di “sfigurare” anche il cielo: «ho trivellato i firmamenti…». Il passato è un passato di morte, violenza e desolazione, come nella litania della sposa in Hochzeitgesellschaft: «Tutti volti morti / e più indietro / tutti mestieri morti / tempo morto e morto perire / morti prati, morti campi / morti casali, morte vacche / morti porci, morti ruscelli / e nei ruscelli / pesci morti / morte preghiere, donne morte, / città morte, morti inverni…»; a lei risponde lo sposo elencando una lunga serie di privazioni, di “senza” (senza mare, senza primavera, senza contenuto, senza uscita, senza occhi, senza latte, senza bianco…).

Altri personaggi portano le stimmate di una condanna metafisica, nella brutalità della loro vita ottusamente elementare: parroci, osti, macellai, scrivani comunali, artigiani e braccianti. Tra loro si erge l’io del poeta, incompreso e perseguitato, il solo capace di innalzarsi aldilà delle miserie: «e se mi linciassero sulla piazza del paese, / se mi sbattessero in una fossa buia / e sputassero sul mio teschio / e ancora si contendessero il mio cazzo…//…  io parlai di verdemela e di crusca invernale, / esplorai le tasche del mio cappotto… / Insensati salmi io diffusi dal pulpito, / abbattei grida di uccelli nel grano matto…», «io nel bosco, / io nel gelo, / io nei fiumi, / io nei grossi libri, / io sui crinali dei colli…»; «voi che mi avete messo fuori, / me, una bestia qualunque, / espulso come piscia dopo la birra…». Capovolgendo «l’alfabeto di Virgilio», Thomas Bernhard fustiga non solo le “mandibole”, la “demenza” dell’«idiota provincia», ma anche la natura, nei suoi paesaggi plumbei, nelle carcasse degli animali uccisi, negli alberi rinsecchiti, nei gelidi inverni. Fuggire, allontanarsi dalla «sozza vita», cercare salvezza in Italia o in Inghilterra («ma dov’è il mio biglietto?») non serve e non basta a promettere pace al «salmo incessante» («Cosa vuole da me il giorno / e mi fa domande») di questa «voce del lutto» che ha prodotto «un’esperienza poetica tra le più originali e condivise del secondo Novecento», come afferma Valerio Magrelli nella quarta di copertina.

 

«Poesia» n. 330, ottobre 2017