CHRISTIAN BOBIN, L’UOMO DEL DISASTRO – ANIMAMUNDI, OTRANTO 2015

 

Christian Bobin (Le Creusot, 1951), vissuto sempre in maniera appartata nei dintorni della sua cittadina natale, in Borgogna, ha studiato filosofia dedicandosi alla meditazione e alla scrittura, e lavorando in passato come operaio e infermiere psichiatrico. Tradotto per la prima volta in Italia dalle edizioni San Paolo nel 1996, ha visto crescere negli anni il numero dei suoi lettori ed estimatori, per la qualità del suo timbro narrativo pacato e sobrio, e per la profondità delle sue riflessioni.

Bobin nelle sue pubblicazioni, che spesso consistono in plaquette di poche pagine, si confronta con temi altissimi: il senso della vita, il rapporto con gli altri, il valore della conoscenza e dell’amore, il vuoto e l’assoluto. Non lo si può definire un autore clericale, o particolarmente fedele all’ortodossia ecclesiastica: la sua è una produzione meditativa e raccolta, di prose poetiche intense, miranti al recupero di una dimensione spirituale dell’esistenza, illuminata da momenti epifanici di grazia e di rivelazione.

In Elogio del nulla, ad esempio, si oppone all’esaltazione del troppo e del superfluo, all’esibizione ostentata, lodando invece l’importanza dell’attesa (“è un fiore semplice: germoglia sui bordi del tempo”), dell’esperienza (“quello che attraversiamo ci cambia: il vento si ingolfa nel sangue”), dell’ amore (“ci solleva da tutto, senza salvarci da nulla”), della natura (“all’inizio si guarda quello cui si passa accanto, poi lo si diventa”), con l’invito a liberarsi da costrizioni inutili, imparando a conquistare la gioia “là dove non c’è più niente da afferrare, se non l’inafferrabile”. La felicità cui ambire deve essere pura, priva di motivazioni e fini esteriori: “Si può chiedere all’uccello la ragione del suo canto?”

Credente, ma di una fede non circoscritta al cattolicesimo, parla di Dio con trasporto lieve, con affettuosa serenità di spirito: pressoché inevitabile, quindi, che venticinque anni fa abbia pubblicato in Francia un libro di grande successo e molto premiato ‒ in Italia arrivato all’ottava edizione presso le Paoline ‒, dedicato alla figura di Francesco d’Assisi: il santo della gioia, delle cose minute e di tutte le creature. In Francesco e l’infinitamente piccolo, alla pesantezza di una religione intesa come istituzione e obbligo antepone una spiritualità luminosa e confidente. Poeta del poco, indifferente ai palcoscenici, alle cattedrali e ai salotti, di sé ha scritto: “Quel che si dice in me non sta nei miei libri. I libri sono un contro-rumore al rumore del mondo. Quel che si dice in me si confida al silenzio, non è altro che silenzio. I libri sfiorano questo silenzio”.

Il silenzio, la quiete, il ritrarsi da ciò che distrae e confonde, è anche la tessitura tesa alla base de Il distacco dal mondo, che in ogni pagina condensa un insegnamento sapienziale, lontano da ogni presunzione o retorica, quasi l’autore scrivesse con scarsa attenzione a un eventuale pubblico di lettori. Non c’è declamazione, né intento pedagogico: solo raccolta riflessione, indagine del pensiero interrogante.  “Se consideriamo la nostra vita nel suo rapporto col mondo, dobbiamo resistere a quel che pretendono fare di noi, rifiutare tutto ciò che si fa avanti – ruoli, identità, funzioni – e soprattutto non cedere mai nulla della nostra solitudine e del nostro silenzio…”,  “L’amore è distacco, oblio di sé… Meglio sarebbe chiederci che cosa ci rende tanto difficile amare qualcuno senza legarlo subito alla nostra vita, il che equivale a domandarci perché ci è così difficile amare”.

Bobin invita a ritrovare nel proprio io, gonfio di cose inutili e poco concentrato su quello che conta davvero, lo stesso abbandono fiducioso del bambino che si addormenta nel chiasso della folla, che impara a parlare innamorandosi del suono di ogni vocale, o che si impegna nel suo gioco con la dedizione propria dei santi. Dovremmo recuperare la leggerezza “dell’uccello che per cantare non ha bisogno di possedere il bosco, nemmeno un solo albero”, e la volontà di compiere ogni atto, anche il più banale e quotidiano, con la massima applicazione, perché questa cura verso le cose minime si riflette immancabilmente nell’ordine universale. Consapevoli della nostra inessenzialità, impariamo a conquistare l’essenziale: “Riconosco lo splendore del vero soltanto nella gioia e in quella coscienza di noi stessi che l’accompagna sempre, la coscienza radiosa di non essere nulla”.

Ancora, in Mozart e la pioggia: “I momenti più luminosi della mia vita sono quelli in cui mi accontento di vedere il mondo apparire. Questi momenti sono fatti di solitudine e silenzio. Sono sdraiato su un letto, seduto a una scrivania o cammino per strada. Non penso più a ieri e domani non esiste. Non ho più legami con nessuno e nessuno mi è estraneo. Questa esperienza è semplice. Non c’è da volerla. Basta accoglierla quando arriva. Un giorno ti sdrai, ti siedi o cammini, e tutto ti viene incontro senza fatica”.

Due letttori doc di Christian Bobin, Franco Arminio e Mariangela Gualtieri, hanno detto di lui: “Bobin sembra che scriva frasi fatte apposta per essere citate. E ancora più incredibile è che questo autore riesce sempre ad assomigliarti. Tu leggi e pensi che sta scrivendo come scrivi tu, come pensi tu, come senti tu”, “La scrittura di Bobin è certamente poesia, perché è colma di silenzio, perché ha al proprio centro il silenzio: lo suscita, lo impone alla lettura, come respiro obbligato, come passo di forte e lento camminatore… cosicché da lettori si diventa auscultatori, da corridori distratti a meditanti, da divoratori onnivori ad attenti. Bobin dunque ci conduce fuori dall’ordinario, ci educa”.

La casa editrice Animamundi, fondata a Otranto nel 2012, sta dedicando molta attenzione all’opera di Christian Bobin, e in pochi anni ha pubblicato dodici suoi testi. Tra questi, forse il libro che più si allontana dalla produzione usuale e conosciuta dello scrittore francese è L’uomo del disastro, dedicato alla figura di Antonin Artaud.

Qui, l’urlo rabbioso di un teatrante angosciato si placa nel tratteggio lieve del filosofo, la fisicità del primo si disincarna nella spiritualità del secondo. Cinquantacinque anni dividono i due scrittori: “l’abbondanza di un dolore” che “esigeva l’impossibile”, il furore solitario della follia, la morte tragica e silenziosa di Artaud incontrano in Bobin la clemenza di un ascolto docile e amichevole, la consolazione di una comprensione tardiva e inutile. “Così eri tu, con un balzo saltavi nel cuore del reale, al centro della vita cruda, riaprendo ogni volta la ferita dei tuoi nervi, la piaga di un corpo soffocato nella pena di vivere senza vivere”, “Credo ci si ammali per intelligenza, per una intelligenza troppo esatta, troppo improvvisa, non acclimatata”.

La lettera ad Artaud, a un artista incompreso, all’uomo del disastro mentale, è quasi una richiesta di scuse proveniente da un paese intero che non ha saputo o voluto comprendere. Bobin si fa portavoce di questo senso di colpa collettivo: “Non scrivo su di te. Non scrivo un libro dotto”. Racconta d’altro, infatti, sfiorando i propri contenuti d’elezione: l’infanzia, il tempo, la vicinanza e l’indifferenza, il cielo vuoto, la malinconia e la speranza. Per avvicinare “un uomo che ha perduto la propria ombra… che va nel mondo come in un deserto… che sbraita contro Dio che manca”. Antonin Artaud, uomo senza misura, titanico, eccedente, nelle parole di un mistico si scontra con la misura per lui inaccettabile della pace interiore: mondi e pensieri inconciliabili, che nella scrittura cercano in modi diversi lo stesso scampo dall’inferno.

 

© Riproduzione riservata     «Il Pickwick», 28 dicembre 2020