LORIS CAMPETTI, GIORNALISTA E SCRITTORE


In quest’intervista Loris Campetti racconta la sua formazione e il suo apprendistato politico, intellettuale e professionale, senza trascurare di offrirci una sottile analisi dei cambiamenti configuratisi negli ultimi decenni nella società italiana e alcuni interessanti spunti di riflessione sul futuro prossimo di quel che resta della sinistra.

Nato a Macerata nel 1948, consegue la laurea in Chimica nel 1972, insegnando poi a lungo nella scuola media. Entra nel mondo del giornalismo sul finire degli anni Settanta, dirigendo per circa dieci anni la redazione torinese de Il Manifesto, e in seguito occupandosi di economia, lavoro e sindacato come capo-redattore. Tra i suoi libri: “Non Fiat” (Castelvecchi, 2002), “Ilva connection” (Manni, 2013), “Non ho l’età” (Manni, 2015), “Ma come fanno gli operai” (Manni, 2018).

  • In quale ambiente familiare e culturale si è formato?

Sono figlio di un sarto, ex partigiano, comunista (eretico) in una città bianca. Sul muro del municipio è scolpita in pietra la scritta “Civitas Mariae” anche se sotto c’è una lapide dedicata a Giordano Bruno, “vittima della tirannide sacerdotale”. Mio padre è morto quando io avevo appena dieci anni, il suo è stato il primo funerale laico nella storia della città con tanto di bandiere rosse e di porte delle chiese che venivano chiuse al passaggio del feretro e del corteo. Mia madre, anche lei sarta, ha lavorato a testa bassa per consentire a mia sorella e a me di studiare e laurearci. Era la stagione del mito del riscatto sociale (e della cultura), era il tempo oggi scaduto in cui si sapeva che i figli avrebbero vissuto meglio dei loro genitori.

  • La sua scelta politica di schierarsi dichiaratamente e con coerenza a sinistra in che anni è maturata, e seguendo quali Inclinazioni o suggestioni caratteriali e intellettuali?

La mia scelta di campo, con gli ultimi, i più deboli, forse l’avevo già impressa nel DNA, o più probabilmente è maturata negli anni intorno al ’68 e alla rivolta contro tutti gli autoritarismi. All’università occupata di Camerino portavamo a parlare i primi delegati operai eletti e alla notte noi studenti andavamo ai presidi operai davanti alla Lebole e alla Merloni. La laurea in Chimica mi è servita, dopo un periodo in cui ho fatto il collaudatore di automobili, per andare a lavorare in una multinazionale farmaceutica per pochi mesi, il tempo necessario a capire che con un uso puramente speculativo degli ormoni si poteva rovinare la vita di un sacco di persone. Poi la scuola, otto anni di insegnamento accompagnati da lavoro giornalistico volontario, meglio dire militante, e infine Il Manifesto oltre che per piacere per lavoro. Era un giornale dalla parte del torto, il mio giornale.

  • Quali sono stati gli autori e le esperienze esistenziali che hanno inciso più profondamente nella costruzione della sua identità umana e professionale?

Leopardi (tutto), Richard Wright (“Ragazzo negro”), Steinbeck (“Furore”), Che Guevara (“Il diario in Bolivia”), Tex Willer, Pasolini, Brecht, Rosa Luxemburg….

  • Quarant’anni di collaborazione attiva con Il Manifesto che eredità di pensiero e sentimenti le ha lasciato? Ritiene che questo quotidiano abbia ancora una sua funzione di stimolo e critica nella società italiana, o pensa che abbia perso parte della sua capacità propulsiva e propositiva?

Potrei rispondere “sono un comunista non ho altro da dichiarare”, non lo farò. Al manifesto ho dato tanto e ricevuto ancora di più: il pensiero critico, la cultura del dubbio. Credo che ogni cosa abbia un inizio e debba avere una fine una volta esaurita la sua spinta propulsiva; se il nuovo manifesto, quello che si è emancipato dai suoi fondatori e da qualche fondamento, va ancora in edicola credo dipenda da due fattori: il vuoto editoriale a sinistra e la legge sull’editoria.

  • Esiste ancora, ideologicamente e politicamente, un futuro per la sinistra in Europa e nel mondo? Integralismi e populismi troveranno un argine nella coscienza civile internazionale? A molti commentatori sembra che il capitalismo, con le sue feroci leggi del mercato, abbia trionfato ovunque, e il comunismo sia ormai relegato in un ruolo di irrealizzabile utopia egualitaria.

Se sapessi rispondere a queste domande potrei aspirare a guidare la rivoluzione mondiale. Finché ci sarà sfruttamento dell’uomo sull’uomo, finché cresceranno le diseguaglianze, ci sarà bisogno di conflitto e utopia, chiamiamola sinistra o come ci pare. Se un altro mondo sul piano morale, politico, ambientale, umano è desiderabile – e non serve essere comunisti per desiderarlo – e necessario – chiedetelo ai migranti, agli operai e all’orso polare – dovrà pure essere possibile. Il comunismo è un fantasma, se non lo vediamo aleggiare nei cieli d’Europa, sarà per colpa dell’inquinamento? O magari dobbiamo cambiare gli occhiali? Chi si batte per un ideale può essere sconfitto, chi rinuncia a battersi ha perso in partenza.

© Riproduzione riservata   https://www.sololibri.net/Intervista-a-Loris-Campetti.html     18 aprile 2018