Mostra: 31 - 40 of 72 RISULTATI
INTERVISTE

FAZIO

RAFFAELA FAZIO, TRADUTTRICE E POETESSA

Raffaela Fazio, nata ad Arezzo nel 1971, risiede e lavora a Roma come traduttrice, dopo aver vissuto in vari paesi europei. Laureata in lingue e politiche europee (Grenoble) e specializzata in interpretariato (Ginevra), ha poi conseguito un diploma in scienze religiose e un master in beni culturali (Roma), interessandosi in particolare all’iconografia cristiana. È autrice di vari libri di poesia, tra cui: L’arte di cadere (Biblioteca dei Leoni, 2015), canzoniere amoroso; Ti slegherai le trecce (Coazinzola Press, 2017), rivisitazione della mitologia classica al femminile; L’ultimo quarto del giorno (La Vita Felice, 2018), scansione del tempo interiore; Midbar (Raffaelli Editore, 2019), rilettura di racconti e archetipi biblici; Tropaion (Puntoacapo Editrice, 2020), poetica del “polemos” esistenziale. Si è occupata anche della traduzione di Rainer Maria Rilke, le cui poesie d’amore sono state raccolte in Silenzio e tempesta (Marco Saya Edizioni, 2019).

  • In quale ambiente familiare e universitario ti sei formata?

Sono nata e cresciuta ad Arezzo. Mio padre (che ho perso quando avevo 24 anni), venuto da un sud molto povero (con sette fratelli e una famiglia contadina in Calabria), faceva l’avvocato. Mi piace ricordare di lui l’intraprendenza, la capacità di osare. Mia mamma, aretina, era professoressa di matematica e scienze alle medie. Ho sempre avuto un forte legame con lei. Di lei amo la paziente tenacia, la sensibilità, l’affidabilità. Ora che ci penso, credo che ad accomunare i miei genitori, molto diversi per temperamento, fosse il senso della correttezza, un’allergia innata alle scaltrezze che vanno oggi così di moda. Mio fratello, di cinque anni più grande di me, architetto e fotografo ora stabilitosi a Londra, è stato la mia “scuola di sopravvivenza”: ho dovuto affilare la mia ironia per rispondere alla sua, spesso inclemente. Anche mia nonna materna, ferrarese, ha influenzato la mia giovinezza: era combattiva, schietta, sempre pronta alla battuta. Questo è l’ambiente che ho lasciato, dopo la maturità. Mi sono iscritta direttamente all’università di Grenoble: là, per ottenere la laurea in “Langues étrangères appliquées”, ho seguito principalmente corsi di lingua, cultura e politica tedesca e inglese. Grazie ai programmi Erasmus previsti dall’università francese, ho frequentato il terzo anno in Germania, a Ludwigsburg, e il quarto anno in Inghilterra, a Cambridge. Mi sono così laureata e poi ho trascorso un anno a Londra, per lavoro. In seguito mi sono specializzata a Ginevra, alla Scuola di Interpreti e Traduttori. Dopo un altro anno in Germania, a Heidelberg, mi sono trasferita a Bruxelles, come interprete presso la Commissione europea. Il Belgio è stato l’ultimo paese straniero in cui ho vissuto, prima del rientro in Italia, che allora non credevo definitivo… ma che tale si è poi rivelato. Adottata da Roma, ho ripreso a studiare negli interstizi di tempo permessi dal lavoro (e dai figli): qua ho approfondito soprattutto le materie religiose e artistiche.

  • Sei una poetessa e sei una studiosa. Ti sei occupata a livello professionale di lingue straniere, di traduzione e interpretariato, di scienze religiose e di iconografia cristiana. Quanto ha inciso questa molteplicità di interessi culturali sulla tua scrittura?

Credo che abbia inciso come ha inciso tutto quello che ho fatto nella vita e tutte le persone che ho incontrato. L’aver vissuto in contesti diversi ha forse ammorbidito la mia visione del mondo, mostrandomi che ogni situazione ha la sua dinamica specifica e che, prima di esprimere un giudizio, andrebbe conosciuta la cosa dal suo interno o almeno da molto vicino. Il cambiamento, la necessità di lasciare paesi e persino persone penso che mi abbia insegnato anche una certa tendenza all’essenzialità, per far tesoro di quello che davvero conta e per non disperdermi nel superfluo. Questo, naturalmente, è uno sforzo continuo, non un traguardo raggiunto una volta per tutte: ero e rimango una persona irrequieta! Nei miei studi, ho privilegiato quelli che mi hanno permesso di fare principalmente due cose: accogliere la diversità (le lingue straniere e le culture sottostanti), e andare a fondo di ciò che pare evidente, quasi scontato (gli studi biblici e iconografici). Come ho detto altrove (intervista su poesiadelnostrotempo), mi piace leggere la realtà come una grande “foresta di simboli”, attraverso i quali scoprire il “nuovo” anche dentro il “vecchio”, in un tessuto connettivo che unisce ogni cosa, senza annullare la specificità del singolo.

  • Quale tra i poeti italiani e stranieri ha regalato più linfa alla tua ispirazione?

Confesso che i poeti che mi hanno maggiormente nutrita sono i classici che ho conosciuto da bambina e da ragazza, anche se ce ne sono di nuovi e di nuovissimi che trovo sicuramente interessanti. Scoprire una voce stimolante mi dà la carica, di più, mi rincuora con un senso di fiducia. Ma i vecchi amori sono indimenticabili. Innanzitutto gli ermetici (da Ungaretti a Luzi) e i simbolisti francesi. Però ricordo anche che, alle elementari, Pascoli mi colpì per la capacità di addensare il mondo in un dettaglio, e Leopardi per quella, quasi opposta, di aprire il dettaglio alla sconfinatezza (solo in seguito ne ho apprezzato la disincantata resistenza). I romantici tedeschi e inglesi sono arrivati dopo. Sul mio comodino ora ci sono sempre Rilke, Tagore e Salinas. E sullo scaffale degli “irrinunciabili”, le mie poetesse: Antonia Pozzi, Emily Dickinson, Hilde Domin. Accanto, tre poeti francesi: Yves Bonnefoy, Francis Ponge e Pierre Reverdy. Tra le scoperte degli ultimi anni, la poesia polacca: oltre la Szymborska, Zagajewski, Twardowski, Herbert. La lista è naturalmente molto più lunga, e credo che non smetterà mai di crescere…

  • La parola della poesia, nei tuoi versi, sembra sia da coltivare e accogliere nel silenzio e nella meditazione. Che spazio ti sei ritagliata all’interno del mondo letterario contemporaneo, così freneticamente attivo e competitivo mediaticamente, sui social, nei festival, nelle letture pubbliche?

Fino a tre anni fa, ho vissuto la poesia in maniera molto privata, non solo per carattere, ma per motivi pratico-organizzativi. Ho iniziato a frequentare poeti in carne e ossa soltanto di recente, partecipando a letture e a incontri, anche se continuo a diffidare delle maratone poetiche e dei concorsi letterari, preferendo situazioni in cui c’è uno scambio da una parte “più personale”, nel senso del confronto dialogico, e dall’altra “meno personale”, nel senso di una valutazione oggettiva. A mio parere, nell’ambiente letterario odierno, anche a livelli più modesti, la difficoltà rimane quella di non farsi influenzare da criteri esterni al testo, come la simpatia (legittima) o l’antipatia per l’autore, oppure il nome già noto, considerato che spesso la visibilità, nel mondo dei social, non coincide con la qualità. Frequentare persone che hanno passioni (o quantomeno interessi) simili ai propri è piacevole e arricchente, anche per una crescita personale, ma è altrettanto importante non limitarsi all’orticello letterario e, soprattutto, non scordare che l’arte è sempre in debito con la vita, e che da essa non può prescindere.

  • Credi che la poesia, con la sua minima incidenza editoriale, possa ancora svolgere un ruolo etico e culturale motivante, collettivamente e individualmente?

La mia risposta è sì, ma ovviamente non è una risposta oggettiva, perché amo la poesia da sempre e la vado a scovare anche in nicchie o su scaffali impolverati. La poesia è il mio canale preferenziale nell’esperire il mondo e nell’esprimere me stessa nel mondo. Forse la domanda andrebbe fatta a chi non scrive poesia. Allora dico semplicemente: se la poesia, come qualsiasi altra forma creativa, riesce a mantenere viva (o a rianimare) la parte più “umana” della persona, avrà sempre un ruolo etico e culturale. Cosa vuole dire “umana”? Per me vuol dire relazionale e riflessiva, empatica e ingegnosa, capace di provare gratitudine, di farsi domande anche dolorose e di compiere un passo fuori dai propri confini.

© Riproduzione riservata

https://www.sololibri.net/Intervista-a-Raffaela-Fazio.html      20 dicembre 2019

INTERVISTE

FORLANI

FRANCESCO FORLANI, SCRITTORE E PERFORMER


Francesco Forlani è nato a Caserta nel 1967 e vive a Parigi; collaboratore di varie riviste internazionali, come Paso Doble, Atelier du Roman, Sud, La Revue Littéraire, ha pubblicato diversi libri di poesia e narrativa. Traduttore dal francese, ma anche poeta, cabarettista e performer, è stato autore e interprete di vari spettacoli teatrali. È redattore dei blog letterari Nazione Indiana e Generazione TQ. Tra i suoi libri: Métromorphoses (Nicolas Philippe, Paris, 2002), “Il manifesto del comunista dandy”, (La camera verde, Roma, 2007), “Il peso del ciao” (L’Arcolaio, Forlì, 2012), “Parigi senza passare dal via” (Laterza, Roma,Bari, 2013). Per la casa editrice Miraggi è tra i curatori delle collane Tamizdat (straniera) e Scafiblù (italiana)

  • Cosa ci puoi raccontare dell’ambiente in cui sei nato e ti sei formato culturalmente, e di quello invece in cui oggi vivi e lavori?

Lo farò con un aneddoto. Tempo fa a Parigi, durante uno dei corsi che tenevo all’Istituto di Cultura, una studentessa mi rivelò di essere editrice per la Readers Digest. Cavolo! Di colpo come la Madeleine in Proust davanti agli occhi mi si sono presentati tutti i dorsi dei libri che facevano parte della nostra, in verità scarna, biblioteca familiare. Enciclopedie, fascicoli FMR, compendi di storia e di lingue. Questo per dire che sono nato in un ambiente letterario familiare più versato nell’oralità, com’era naturale che fosse in una famiglia numerosa come la nostra, che nella scrittura. Molto cantautorato, molta televisione, cinema. Ho questa scena in testa delle mie sorelle, Rosaria e Antonella, insieme a Gigliola De Sire del quinto piano e Antonellina De Maria, allineate e coperte dagli schienali al cinema San Marco, che singhiozzano durante la proiezione di (nell’ordine): Ultima neve di primavera, Il venditore di palloncini, Kramer contro Kramer. Credo che quella scuola un po’ obbligata mi abbia condizionato nel frequentare poco il dramma sentimentale, sia come autore che come lettore.
E in quegli anni zero conquistavo anch’io, numerandole, le prime scoperte a partire da quelle trasmesse da mio fratello Geppi con cui condividevamo letto a castello e camera, letteratura anni Settanta, ovviamente, però non solo ideologica, per cui ai “Quaderni dal carcere” di Gramsci erano affiancati i libri di Marquez, di Sciascia o di Peter Handke. Con l’entrata in collegio, alla Nunziatella di Napoli, ho scoperto la lettura, quella disperata e bulimica dell’adolescenza, quella per capirci in cui ti leggi tutto Herman Hesse, Nietzsche, Thomas Mann…

  • Attraverso quali letture e incontri ti sei avvicinato alla letteratura? Verso quali autori classici e contemporanei ti senti più debitore?

In questa lunghissima autogestione delle letture, per lo più suggerite dagli amori delle fidanzate e degli amici, fondamentali sono stati due incontri. Quello universitario a Napoli con professori e compagni veramente straordinari e la convivenza a Parigi con Massimo Rizzante. Dai primi anni napoletani sono nate le prime prove che poi sfociarono in un primo romanzo “Posti a sedere per la Primavera”, pubblicato da un giovane e coraggioso editore di Pompei, Ciro Sabbatino. Ricordo allora di avere trovato una matrice determinante in Heinrich Böll, nei poeti russi scoperti grazie all’amico filosofo Lucio Saviani attraverso la voce di Carmelo Bene in Quattro diversi modi di morire in versi. Esenin e Majakóvskij, uno contadino e l’altro metropolitano, entrambi sopra le righe, si sono sempre contesi il primato alla maniera dei Beatles e dei Rolling Stones. Con Massimo è stato veramente il passaggio alla cerchia dei dannati della letteratura, sia che si trattasse di critici come Bachtin o di classici come Dostoevskij e Kafka, lui sì mio maestro dalle prime alle ultime ore. Però lasciami dire, piuttosto che continuare con un name dropping che poi non porta davvero lontano, è attraverso gli incontri e le riviste (Atelier du Roman, Paso Doble, Nazione Indiana), è lì che ho imparato tutto e questo l’ho raccontato anche nel mio “Parigi senza passare dal via”. A proposito di Heinrich Böll ti racconto una cosa molto preziosa per me. Avevo trascorso un’estate vicino Gaeta da mia sorella Rosaria, e in quelle due settimane un’anziana scrittrice frequentava lo stesso luogo, il Prato, sospeso sul mare. Parlavamo di letteratura, di vita e le diedi da leggere il mio primo romanzo. Avevo vent’anni, lei una settantina. Quando me lo riportò mi disse che sentiva in me lo stesso passo dell’autore di “Opinioni di un Clown”. Apriti cielo! Molti anni dopo la ritrovai a Parigi. Era nella vetrina della libreria Gallimard, c’era il suo libro, “L’arte della Gioia”, eggià perché avevo passato molte ore con Goliarda Sapienza e non lo sapevo (queste cose non si sanno mai).

  • In che relazione si trovano la tua produzione narrativa, poetica e di performer teatrale?

Credo che queste come altre mie attività che contemplano la radio, il reportage, la critica saggistica, l’insegnamento, siano le componenti di una sola macchina desiderante (per citare la magnifica coppia a me cara Deleuze-Guattari). Una macchina esplorativa del mondo, ma sarebbe più corretto dire dei mondi che ho la fortuna di attraversare. In questa fase, poi ancora più particolarmente con il ritorno in Francia e il guado delle lingue, visto che il nuovo romanzo lo sto scrivendo in francese.

  • Quale dei tuoi libri ha avuto più successo, a quale sei più legato emotivamente, e a cosa stai lavorando adesso?

Sicuramente “Parigi, senza passare dal via” (Laterza) perché è il prodotto di una grande energia umana, a partire dalla sua costruzione avvenuta in un momento di elaborazione di lutto fino alla scrittura nervosa animata dal desiderio di realizzare un memoir degli anni parigini ma anche una rottura con certi modelli letterari. L’incontro con Anna Gialluca direttrice editoriale di Contromano è stato tra i più importanti della mia vita di autore prepostumo.

  • In cosa si differenzia il pubblico dei lettori italiano da quello francese? Ti senti più stimolato culturalmente qui da noi o oltralpe?

Dal punto di vista culturale è qui che sono nato, a Parigi, e questa nascita ha di colpo permesso di vivere a quanto avessi visto, letto, detto o ascoltato in Italia, dalla mia città d’origine Caserta a quella d’adozione Napoli per finire con quella del mio esilio decennale, Torino. È qui che ho imparato la differenza tra vita e carriera letteraria.

  • Che importanza ha avuto e ha tuttora la tua collaborazione con il blog Nazione Indiana? Ritieni che i blog letterari esercitino una reale funzione formativa e di stimolo intellettuale sui lettori?

Per me Nazione Indiana è l’esperienza più bella di benvenuto in Italia che mi potesse accadere insieme alle bevute con Enrico Remmert. Ero infatti appena rientrato in Italia per via di complicate vicende professionali e personali grazie alle quali avevo perso tutto quello che avessi a Parigi e a Torino è stato proprio Enrico ad accogliermi. Sul fronte letterario Andrea Inglese che era nel nucleo originario di Nazione Indiana dopo la spaccatura all’interno della redazione, che è possibile rileggere negli archivi del sito a proposito di “restaurazione”, aveva invitato me e altri autori con cui condivideva soprattutto esperienze di rivista e poesia (Baldus, Sud, Camera Verde…) a subentrare e così mi sono trovato a giocare a questo nuovo gioco letterario lanciandomi nel mucchio e spesso in direzione ostinata e contraria. Rispetto agli esordi più diretti, a gamba tesa anche se spesso maldestri, in questi ultimi anni è cambiato il passo, più da maratoneta che da velocista, oltre che un numero considerevole di redattori. Attualmente grazie anche alla grande esperienza accumulata e agli anni di amicizia maturati credo si possa parlare di gruppo vero e proprio. Comunque ho imparato e tuttora imparo molto da questa esperienza, soprattutto ad essere preciso, attento, perché il lettore di Nazione Indiana è un lettore preciso e attento.
Sicuramente tra le cose più belle di questi ultimi anni c’è stato anche l’incontro con i ragazzi della casa editrice Miraggi. Con Alessandro De Vito, Davide Reina e Fabio Mendolicchio ci siamo inventati due progetti, le collane Tamizdat e Scafiblù, e nel giro di due anni pubblicato autori stranieri e italiani degni della maggiore attenzione e assolutamente significativi per capire i nostri tempi.

 

© Riproduzione riservata

https://www.sololibri.net/Intervista-a-Francesco-Forlani.html   27 aprile 2018

INTERVISTE

GACCIONE

Intervista ad Angelo Gaccione, scrittore e drammaturgo

Alida Airaghi ha intervistato Angelo Gaccione, scrittore, drammaturgo e fondatore della rivista online Odissea.

Intervista ad Angelo Gaccione, scrittore e drammaturgo

Angelo Gaccione è nato a Cosenza e vive da anni a Milano. Narratore e drammaturgo, ha pubblicato numerosi libri di saggi, racconti, aforismi e testi teatrali. Fra i più noti ricordiamo Il sigaro in bocca, Manhattan, Disarmo o barbarie (assieme a Carlo Cassola); L’immaginazione editoriale. Personaggi e progetti dell’editoria del secondo Novecento (assieme a Raffaele Crovi); il bestseller Lettere ad Azzurra, La striscia di cuoio. A Milano ha dedicato quattro libri di successo: Milano, la città e la memoria; La città narrata; Poeti per Milano; Milano in versi. Nel 2013 Gaccione ha pubblicato tutto il suo teatro in un unico volume: Ostaggi a teatro. Testi teatrali 1985-2007. L’ultimo suo libro, finalista al Premio Viareggio di Poesia 2020, si intitola Spore. Da 19 anni dirige la rivista online di cultura “Odissea” a cui collaborano prestigiose firme della cultura italiana e internazionale. Per il suo impegno civile gli è stato conferito il Premio alla Virtù Civica.

 

  • Cosa ci può raccontare dell’ambiente in cui è nato e si è formato culturalmente, e di quello milanese in cui si è trasferito? Ha trovato difficoltà nell’adattarsi a due realtà tanto diverse?

Sono nato in Calabria, all’ospedale di Cosenza, perché il parto di mia madre si stava dimostrando problematico e pericoloso. Si dovette ricorrere al cesareo. Forse mi rifiutavo di venire alla luce per come andava il mondo. Giunti ad Acri ci portarono a casa a dorso di mulo, tanto era la nevicata. Ho lavorato e studiato qui, con le difficoltà di chi nasce povero come me. Ma mi incantavano i racconti degli anziani del quartiere, il modo come mia madre e le tante matriarche che ho frequentato sapevano narrare. I miei genitori erano comunisti e maturai in quel clima infuocato; eravamo gli unici in quartiere a non andare a messa e la nostra casa era l’unica dove il prete non entrava a benedire. Ma ero affascinato dalle processioni, dalle parabole del Vangelo. Libri in casa non ce n’erano, ma appena potei ne comprai a bizzeffe e li divoravo. E ne lessi tanti della locale biblioteca. L’Università l’ho fatta a Milano, alla Statale egemonizzata dagli stalinisti, ma io ero già uno sfegatato libertario. Feci molti lavori perché i miei non erano in grado di mantenermi. Divenni subito un lavoratore studente, e presi parte alle lotte e al dibattito degli anni Settanta e di quelli a venire. Mi è sempre mancato il cielo vasto della Calabria, e poi le rondini con i loro nidi sotto i balconi e le grondaie. Soprattutto detestavo l’umido milanese e la nebbia che ti mangiava le ossa, e il Natale non è mai stato il mio Natale in nessuna città. Chi nasce povero ha sempre difficoltà ad adattarsi, ma erano anni di grandi utopie e di gioiose esaltazioni collettive, ed io ero parte di quel sogno di trasformazione sociale e personale.

  • Attraverso quali letture e incontri si è avvicinato alla letteratura? Verso quali autori classici e contemporanei si sente più debitore?

La tradizione letteraria della mia terra d’origine era molto povera, ma in compenso ce n’era una orale straordinaria a cui si poteva attingere se si possedeva sensibilità e rispetto. La capacità a raccontare l’ho appresa da lì. E poi quando sì ha un cielo come il nostro e si vede in giro tanta miseria, la parola trova la sua urgenza e la sua strada. Sono debitore ai favolisti antichi, la spinta morale mi ha condizionato subito. Ma la durezza della vita è stata la mia scuola, come per certi autori russi.

  • In che relazione si trovano la sua produzione narrativa, poetica e teatrale?

Io uso volta a volta forme espressive diverse in base a quanto ho da dire: a volte mi occorre un articolo, a volte una poesia, a volte un racconto. Non è una scelta deliberata, è una necessità. Come racconto, La Porta del sangue non avrebbe avuto la stessa forza che ha acquisito facendone un dramma. Perché quello del massacro delle comunità Valdesi nella Calabria del Cinquecento ad opera dei Gesuiti è stata una vera e propria tragedia, uno sterminio.

  • Quale delle sue opere ha avuto più successo, a quale si sente più legato emotivamente, e a cosa sta lavorando adesso?

Il libro più venduto è stato Lettere ad Azzurra, migliaia di copie, forse perché mai uno scrittore uomo aveva affrontato il tema della maternità – territorio strettamente femminile – con tanta tenerezza. Emotivamente sono legato al volume di racconti L’incendio di Roccabruna per molte ragioni che preferisco tenere per me. Ho sempre meno tempo, “Odissea” se ne prende molto. Ho mandato in giro di recente la raccolta: Poesie per un giorno solo. Non so nulla per ora del destino di A teatro con amore e di La mia Milano in mano a due editori. Il prossimo autunno uscirà invece la raccolta di racconti: Sonata in due movimenti.

  • Ci illustri l’attività della sua rivista online “Odissea” e le motivazioni che l’hanno spinta a fondarla.

L’ho raccontata nell’introduzione al libro Satyricon in cui abbiamo raccolto tutti gli scritti che lo scrittore Giuseppe Bonura aveva pubblicato su “Odissea”. Li raccogliemmo in occasione del Convegno che si è tenuto su di lui a Fano e della targa ricordo che è stata messa in sua memoria. In sintesi potrei dire che si era reso necessario avere un organo di stampa che raccogliesse, attorno al suo progetto intellettuale, uomini e donne che si erano tirati fuori disgustati dall’andazzo politico e morale del nostro Paese. Per prendere posizione, tornare a parlare, produrre idee e metterle in circolazione. Disarmo, acqua pubblica, alberi, territorio, beni comuni, mafie, moralità civica e quant’altro, avevano bisogno di un luogo diverso per altre voci. Da diciannove anni – dieci di edizione cartacea – “Odissea” svolge questo compito, ma senza trascurare di parlare di libri, di letteratura, di musica, di arte, e di supportare le lotte di associazioni e comitati impegnati su fronti diversi. Spesso ne siamo protagonisti noi stessi, com’è accaduto per il “Comitato di Odissea per Turoldo” che si è battuto qui a Milano per fargli dedicare un giardino nel cuore della città, e per le tante altre iniziative che ci hanno visti protagonisti, spesso vittoriosi. Facciamo quello che un giornale deve fare, senza sconti, senza compromessi. Ora stiamo concentrando molte energie sulla salvaguardia di Costa San Giorgio, la collina di Boboli a Firenze, minacciata da speculazione, ma i fronti aperti sono tanti.

 

© Riproduzione riservata SoloLibri.net      21 novembre 2021

INTERVISTE

GANCITANO

MAURA GANCITANO E LA POESIA

Maura Gancitano (Mazara del Vallo, 1985) è una saggista e opinionista italiana attiva soprattutto nell’ambito della divulgazione, con collaborazioni giornalistiche e partecipazioni a dibattiti politici e televisivi. È co-fondatrice di Tlon (insieme al marito, Andrea Colamedici), un progetto di divulgazione culturale e casa editrice; ideatrice della Festa della Filosofia presso le Triennali di Milano e Roma, organizzate in media-partnership con Rai Scuola, e di Prendiamola con Filosofia, maratona streaming di divulgazione culturale nata su sollecitazione del Ministero della Salute; autrice di vari podcast, tra cui Pensare Europeo, in collaborazione con il Parlamento Europeo, e Scuola di Filosofie, raccolta di monografie sulla storia della filosofia del Novecento, prodotto da Audible. Con il saggio Specchio delle mie brame (Einaudi) ha vinto il Premio Rapallo 2022, ex aequo con Bianca Pitzorno.

Ma chi me lo fa fare?, Milano, HarperCollins 2023; Specchio delle mie brame, Milano, Einaudi, 2022; Il gioco del pensiero, Bologna, Zanichelli, 2022; L’alba dei nuovi dèi, Milano, Mondadori, 2021; Prendila con Filosofia, Milano, Harper Collins, 2021; Liberati della Brava Bambina, Milano, Harper Collins, 2019; La società della Performance, Roma, Tlon, 2019; Lezioni di Meraviglia, Roma, Tlon, 2017; Tu non sei Dio. Fenomenologia della spiritualità contemporanea. Roma, Tlon 2016; Malefica. Trasformare la rabbia femminile, Roma, Tlon 2016.

***

Platone nello Ione, nel Fedro, nel Simposio e nel X libro della Repubblica dava un giudizio poco positivo dei poeti, ritenendoli folli posseduti da sentimenti irrazionali, che lo stato dovrebbe esiliare dai suoi confini in quanti produttori di illusioni, credenze false e pericolose. Oggi prevale l’opinione che la poesia non serva a niente, ma – come disse Montale all’assegnazione del Nobel – perlomeno non sia nociva. Condivide questa posizione?

La visione di Platone era calata nel tempo di profonda trasformazione in cui viveva. A quanto ne sappiamo, aveva l’impressione che le storie e l’atmosfera create dai poeti rendessero gli uomini deboli e fossero diventate nocive per il percorso di conoscenza. Platone era in realtà un grandissimo amante della poesia e dell’opera di Omero in particolare, e per questo ha probabilmente scelto di inventare nuovi miti, che contengono alcune tra le immagini più poetiche che l’essere umano abbia mai prodotto. Credo quindi che il suo rapporto con la poesia fosse molto dinamico, come quello con la scrittura. Al di là di questo, ad ogni modo, io credo che la poesia sia essenziale per creare uno spazio di meraviglia nella vita. Forse anche perché viviamo tempi di grande crisi, ma per ragioni speculari a quelle di Platone: oggi la poesia è necessaria per recuperare una certa distanza da una visione del mondo cinica e estremamente materiale.

Secondo Richard Rorty la poesia è creazione del perturbante, “perché il perturbante è il risultato dello sradicamento di una parola dal suo gioco linguistico originario”. Tra i compiti del poeta, quello di porre domande e creare inquietudine è importante quanto quello descrittivo, immaginoso, consolatorio e addirittura ludico?

Sicuramente. C’è una frase di Emily Dickinson che viene spesso usata per esprimere questa sensazione: “Se quando leggo un libro, ho l’impressione che mi si scoperchi il cranio, allora so che quella è poesia. È l’unico modo che io conosca di avvertirne la presenza”. La poesia può avere uno scopo puramente ludico, ma rappresenta comunque un tentativo di manipolare le parole per creare meraviglia, e la meraviglia è sia lo stupore, sia il terrore. È il caso, per esempio, di Wisława Szymborska, autrice di moltissime poesie introspettive e perturbanti, per le quali ha vinto il Nobel nel 1996, ma che insieme al suo amico poeta Stanisław Barańczak componeva dei limerick, delle brevi forme poetiche umoristiche che prendono il nome da Limerick, un paesino irlandese. Che ti faccia ridere, piangere o pensare, la poesia non può comunque lasciarti indifferente.

 

Heidegger ha studiato e commentato Hölderlin non solo dal punto di vista letterario e filosofico, ma anche con una particolare adesione emotiva. Ci sono altri pensatori che hanno letto i poeti arricchendone i testi non solo a livello ermeneutico, ma anche di percezione sensibile?

È sempre accaduto che la filosofia cercasse di spiegare la poesia, di interpretarla, di costruirle intorno delle categorie. Eppure, credo che l’interesse di chi fa filosofia nei confronti della poesia nasca dallo stato di meditazione a cui la sua lettura può condurti, che quando si scrive di filosofia è fondamentale. In ogni caso, un elenco di filosofi e filosofe appassionati di poesia sarebbe infinito. Basti citare l’amore di Walter Benjamin per Baudelaire, che ebbe una grande influenza sulle sue riflessioni filosofiche, o quello di Maria Zambrano per Federico García Lorca e San Giovanni della Croce, di Julia Kristeva per Stéphane Mallarmé. Un altro esempio di connessione tra poesia e filosofia: nel 1948 Sartre scrisse l’introduzione all’Antologia della nuova poesia nera e malgascia di lingua francese curata dal poeta senegalese Léopold Senghor, e il suo interesse per quella poesia assume un preciso significato politico e di condanna nei confronti del colonialismo.

 

Che giudizio dà dei filosofi che scrivono versi? Ne ha letti, le sembrano interessanti? Nietzsche, per esempio, gigante del pensiero, aveva scritto liriche mediocri…

Non credo si possa dare un giudizio unitario: esistono filosofi e filosofe che sono capaci di scrivere con più registri e in cui convivono spinte diverse, come nel caso di Sartre, mentre in molti altri casi la scrittura filosofica è il canale principale di espressione, e altri tentativi possono non riuscire o sembrare forzati. Sono modi diversi di usare le parole, e del resto scrivere poesia può essere un’arte che ha senso in sé e si conclude con il suo gesto, non è necessario che sia esteticamente notevole. È anche la ragione per cui molti filosofi e filosofe scrivono poesia, ma decidono di non pubblicarla. Ci sono stati poi alcuni casi, come quello di Edith Stein, in cui la via poetica e mistica ha accompagnato una conversione totale della propria vita.

Legge poesia? Preferisce gli autori classici o quelli contemporanei, gli italiani o gli stranieri? Si è mai cimentata personalmente nella scrittura in versi?

La leggo, anche se in scarsa misura rispetto a saggi e romanzi. Mi piace moltissimo la lingua italiana, quindi amo quella poesia del Novecento (Spaziani, Montale, Luzi, Sanguineti), ma ci sono stati dei momenti in cui ho cercato di avvicinarmi ad altre atmosfere poetiche, come quella americana. I miei preferiti sono forse Mark Strand, Anne Carson e Frank Bidart. Nella lettura della poesia non amo le costruzioni troppo complicate e rarefatte, ho bisogno di figurarmi nella mente quello che il poeta ha immaginato, quindi ci sono anche poesie che non mi sono accessibili, che non riesco ad apprezzare. Quanto a me, ho scritto molte poesie da giovanissima, ma quella di scrivere poesia non è un’urgenza che sento. Mi godo il privilegio di poter essere una pura lettrice.

 

© Riproduzione riservata               «Gli Stati Generali», 25 febbraio 2024

 

INTERVISTE

GARDINI

NICOLA GARDINI, POETA, NARRATORE, SAGGISTA, TRADUTTORE E PROFESSORE DI LETTERATURA ITALIANA E COMPARATA A OXFORD 5 domande allo scrittore Nicola Gardini

 

 

  • Quanto deve la sua formazione culturale all’ambiente familiare e sociale in cui è nato e cresciuto? Quali studi ha compiuto e dove?

Sono figlio di operai, sono cresciuto, fino alla vigilia del liceo, tra figli di operai. Libri in casa non ce n’erano, se non quelli che la scuola comandava, ma c’erano le storie di famiglia, e c’erano i dialetti dei miei, il mantovano del papà e il molisano della mamma. E pure echi di lingue straniere: il tedesco della loro emigrazione e l’americano di una sorella della mamma, che si era trasferita a Mount Vernon, alla periferia di New York, negli anni Cinquanta. Diciamo che gli ingredienti base della mia immaginazione erano già tutti lì: le lingue, la varietà, il viaggio, lo spaesamento, la solitudine del bambino che vuole imparare e fuggire… La scuola ha fatto il resto, che è moltissimo. La scuola mi ha dato il latino e il greco, la filosofia, la storia dell’arte… Oggi vedo anche quanto sia stato formativo studiare biologia e chimica e astronomia e trigonometria. I miei, pur non avendo chissà quali mire per me, capirono che avevo propensione per lo studio e mi assecondarono. Andai nella scuola dei ricchi, il liceo classico (il Manzoni di Milano), e poi mi iscrissi a lettere classiche, incoraggiato proprio dai miei, che non mi vedevano iscrivermi a economia e commercio, come avevo la tentazione di fare. Dopo la laurea mi trasferii in America e alla New York University presi un dottorato in letterature comparate.

  • Sente più consona al suo carattere la produzione in versi o in prosa? E quale delle due le ha procurato maggiori soddisfazioni in termini di pubblico e di critica?

Non faccio differenza tra i versi e la prosa, non più di quanta debba farne un cuoco di fronte alle necessità specifiche che detta la preparazione di piatti diversi. Sempre di cucinare si tratta, cioè di scrivere.
La mia poesia e la mia narrativa mi gratificano in relazione ai modi della loro disponibilità e della loro presenza pubblica. “Le parole perdute di Amelia Lynd”, uno dei miei romanzi feltrinelliani, è quello che forse ha avuto più fortuna. Ha vinto il premio Viareggio nel 2012, e adesso è uscito in America, per New Directions, una splendida casa editrice, nella traduzione di Michael Moore. Però anche la mia saggistica mi dà molta soddisfazione. Il mio libro “Lacuna”, uscito da Einaudi nel 2014, ha ricevuto un credito immediato da più parti, sia tra gli scrittori sia tra gli accademici. Forse ne verrà tratta addirittura un’opera musicale. Anche certe mie poesie sono state musicate e trasformate in bellissime canzoni da Carlo Fava (credo che le potremo sentire presto in un suo nuovo album). Un compositore, Gianfranco Messina, sta lavorando alla trasposizione musicale di certe mie liriche, un lavoro molto interessante e sensibile, che tiene conto dei miei principi metrici e retorici. Ma pure il libro ispirato alla malattia mentale di mio padre, “Lo sconosciuto”, pubblicato da Sironi nel 2007, ha avuto grande seguito. Molti lettori mi hanno scritto parole meravigliose. Non parliamo dell’impatto dei miei “Baroni”, il memoir in cui racconto la mia formazione e gli anni di Palermo, dove ero professore di letteratura comparata, e la fuga dall’accademia italiana… Insomma, ogni libro ha il suo successo, più o meno immediato, più o meno evidente… La poesia, va detto, circola meno; la gente non la trova sui banchi delle novità in libreria. E allora non sai mai da quanti sei letto e da chi. In verità, un poeta è sempre più letto di quanto creda. Comunque, cerco di non misurare il successo pubblico dei miei lavori sulle prove della loro riuscita commerciale. Lo scrittore che decide il proprio valore in base alla risposta del mercato è matto. Il mercato è un fantasma; è diretto da forze che non guardano al valore artistico e all’impegno morale della scrittura… Non parliamo dei recensori, che, pur non contando quasi più nulla nelle macerie attuali di una gloriosa ex repubblica delle lettere, comunque tendono a influenzare l’andamento dei libri in modo sfavorevole, leggendo male e poco, limitandosi al riassuntino… Qualche eccezione c’è, naturale. Il che non significa che uno scrittore, e parlo anche per me, non abbia o non debba avere l’ambizione di essere letto dal maggior numero possibile di persone. Questo mercato universale è in lui, è un’agorà interiore, che accompagna il lavoro, passo passo. È il mondo intero, al quale comincia a parlare da quando il libro prende la sua vera forma. Se questo non avrà riscontro nella realtà delle vendite o della comunicazione giornalistica, non è importante.

  • Ha accennato ai suoi romanzi… C’è un tema che li unisce?

Le vicende cambiano, anche i protagonisti e i luoghi, seppure Milano torni in quasi tutti. Possiamo dire, alla fine, che mi interessa studiare le difficoltà sociali e interiori di un individuo dinamico, bambino, adolescente, giovane uomo… La trasformazione prende la forma di una ricerca linguistica, di un’interrogazione sul senso delle parole e del linguaggio. Nel mio più recente, “La vita non vissuta” (Feltrinelli, 2015), un uomo cerca di dare un nuovo senso alle parole e alla stessa letteratura di cui è imbevuto (è professore di latino all’università) dopo essersi scoperto infettato da un virus inguaribile. Mi interessa criticare la società, le convenzioni, la nostra Italia smarrita nella passività e nell’indifferenza; mi piace indicare nei libri una via, e nell’autoconsapevolezza; mi piace cercare le radici di una qualche verità, scavando nelle memorie degli individui e della lingua che parlano. In “Fauci”, un romanzo buffo che ha per protagonisti due ragazzi di diversa mentalità, la ricerca linguistica mi ha portato a reinventare situazioni da melodramma e da opera lirica.

  • Partendo da alcune riflessioni sul suo ultimo libro, “Tradurre è un bacio“, vorrei chiederle quanto ha inciso la sua attività di traduttore sulla sua produzione originale e in particolare qual è stato il primo poeta che ha tradotto, quale l’ultimo e quale il più “necessario”.

Tradurre è già un modo per essere scrittore, se si traduce poesia, soprattutto. Tradurre Emily Dickinson mi ha sicuramente influenzato moltissimo; perfino nella vita quotidiana. Dopo averla tradotta non solo mi sono ritrovato a comporre cose alla sua maniera, ma non ho più guardato un fiore nello stesso modo. Ma di certo ci sono tante influenze di cui non sono al corrente, o che scopro solo per caso, talvolta, rileggendomi. Altro che. Ho tradotto centinaia di poeti. Se escludiamo le traduzioni che facevo a scuola, il primo poeta che ho tradotto – se ricordo bene, ma sicuramente ricordo male – è stato Ralph Waldo Emerson, nel 1990, su richiesta dell’editore Crocetti. Ah, no: avevo appena finito di tradurre le “Heroides” di Ovidio, poi pubblicate da Mondadori. Avevo già venticinque anni. Mi sembra strano che io non abbia tradotto qualcosa prima. Ci deve essere. Ma non ricordo. L’ultimo tradotto, tra i pubblicati, è il libro di Catullo, uscito da Feltrinelli un paio di anni fa. Ma ogni settimana traduco qualcosa, dal latino o dall’inglese. L’altro ieri ho tradotto una poesiola di Frost. Il più necessario? Il Virgilio dell’ “Eneide”, un poema in cui non manca niente. Ma di quello non ho tradotto niente. Invece ho tradotto le prime due “Bucoliche”, che tengo per me tra le molte traduzioni non pubblicate.

  • In che modo la sua passione per la pittura si riflette sulla sua scrittura? Quali artisti predilige?

La pittura credo che sia collegata in modo particolare con la poesia; ha qualcosa del comporre metrico. E la poesia senz’altro mi ha aiutato a crescere come pittore. Quello che poi ho appreso dal dipingere l’ho riportato nella scrittura; insomma, lo scambio è continuo, simmetrico, speculare, difficile capire in quale direzione operi ormai. Ho in cantiere proprio un libro di versi sul dipingere. Anzi, è finito. Ma aspetto ancora un po’ a pubblicarlo. Vorrei che uscisse con immagini di miei dipinti. Gli artisti mi piacciono tutti, da Giotto a certi amici viventi. Da alcuni ho imparato il modo per trovare la mia strada: Nicolas De Stael, Manet, Munch, Turner, Constable, Matisse, Goya, El Greco, Fantin-Latour, Monet, certi pittori cinesi, come Shitao… Non sto parlando di influenze: parlo di esempi di artisticità, di archetipi, di individui in cui l’arte appare nella sua forma più perfetta e incontestabile.

 

© Riproduzione riservata         www.sololibri.net/5-domande-scrittore-Nicola-Gardini.html     22 febbraio 2016

INTERVISTE

GIUDICI

giudici

GIOVANNI GIUDICI, POETA

  •  Ritieni che si possa fare un discorso di classe all’interno del fenomeno poetico? In altre parole, credi che la poesia sia un’espressione culturale borghese?

Se parto dalla mia esperienza, devo constatare come nell’ambiente in cui sono cresciuto l’occuparsi di poesia (e in generale di cultura) venisse immediatamente considerato un tradimento, un privilegio rispetto alle esigenze materiali, di mantenimento, che assorbivano chi mi circondava. C’era quindi un rifiuto popolare istintivo verso l’arte ritenuta il prodotto dello sfruttamento che la classe dominante esercita su quella dominata. Ma io credo che tutta l’arte, e quindi anche la poesia, non siano espressioni particolari di una classe, svolgano semmai una funzione vicaria, di sostituzione di qualcosa che non si ha e magari non si potrà mai avere. In termini cristiani, sono convinto che se non ci fosse stato il peccato originale, non ci sarebbe stato bisogno dell’arte; cioè in una società utopisticamente perfetta non ci sarebbe bisogno di scrivere poesie, e l’arte avrebbe un senso solo come divertimento, passatempo. Invece, allo stato attuale dello sviluppo borghese, è assurdo parlare di morte dell’arte proprio perché essa svolge più che mai adesso la sua specifica funzione.

  • Sì, ma la società non è tutta borghese, e in concreto si dovrebbe un po’ riesaminare il rapporto poesia-classi subalterne.

Lukacs insegna che la poesia se è veramente tale si riscatta dalle sue origini ideologiche e dai suoi condizionamenti economici e culturali. Io penso che il più corretto atteggiamento di classe nei confronti dell’arte non sia il suo rifiuto come valore borghese, bensì lo sforzo e la lotta riappropriativa da parte delle classi dominate. Chiaro che la riappropriazione fondamentale è quella politica ed economica, ma parallela a questa conquista deve essere quella culturale e espressiva.

  • Intanto però di continua a delegare la scrittura a chi rappresenta anche culturalmente la borghesia.

Credo che sia confortante che molti giovani, molte donne scrivano, e non per condizionamenti quali l’ambizione, il voler pubblicare, il successo. Tutte cose molto borghesi. Ma per parlare di sé, per divertimento o per protesta, per reclamare un riconoscimento.

  • Qual è il tuo giudizio sulla poesia “sociale” o di protesta?

Non ci credo molto, forse perché penso che tutta la poesia sia sociale e di protesta, nel senso che esprime insoddisfazioni e contraddizioni che non sono contingenti, che non si eliminano in nessun sistema politico. Il comunismo non potrà ovviare, per esempio, all’infelicità in amore. Come ho già detto, in me c’è questa radice cristiana per cui sento che l’uomo deve scontare un peccato originale, e la civiltà risulta dagli sforzi per ridurre le conseguenze di questo peccato. Il comunismo in questo senso dovrebbe essere il gradino più alto raggiunto nel processo di civilizzazione. Per tornare alla poesia, personalmente la considero e la pratico come un’ambizione romantica di sopravvivenza. Ma essa rimane sociale come attività, come produzione di certi risultati. E’ quindi un esercizio, e come tale insegnabile, magari già dalle scuole elementari. Penso però che si debba assolutamente scoraggiare la mitologia di una poesia intenzionalmente sociale, perché se si bada ai soli contenuti si ottiene una normatività burocratica nel cui ambito c’è spazio per qualsiasi cialtrone. Ne è un esempio la storia letteraria dell’ URSS dopo il 1930.

  • C’è anche una poesia che non è sociale nelle intenzioni, ma vive e si nutre di una situazione drammatica o alienante. Cioè senza fingersi sociale, lo è veramente.

Sì, più che una poesia, il fatto stesso che si scrivano poesie, non importa se belle o brutte; come nel caso di certa poesia operaia, o più genericamente di lavoro, prodotta in condizioni ambientali agli antipodi delle condizioni culturali che hanno accompagnato, nei ceti colti, il farsi della tradizione poetica e letteraria in genere. E’ un dato che depone a favore della necessità della poesia come fatto compensativo, e ribadisce in modo profondo, anche in termini “spirituali”, la radicale (in senso marxiano) carenza e necessità di umanità. Siamo in presenza di un’umanità, la nostra, decapitata.

  • La poesia, quindi, come uno dei tanti bisogni di cui si parla?

Poesia come sintomo del bisogno di umanità totale, che in quanto tale non sarà mai colmato.

  • Il QdL ha aperto un dibattito su questi temi. Se si riuscisse a metter in piedi una pagina letteraria a scadenze fisse, o meglio ancora, una pagina creativa sulla quale i compagni potessero pubblicare le loro poesie, le loro fantasie, con quali criteri pensi sarebbe giusto organizzare questa pagina?

Certo non con criteri estetico-letterari di tipo tradizionale, ma con motivazioni in linea con la destinazione e la concezione del giornale. Si dovrebbero scegliere poesie di testimonianza, di informazione, pur tenendo ferma la distinzione tra lingua poetica e linguaggio comunicativo. E senza dimenticare che tra una poesia vera e la poesia-slogan o la poesia-bollettino, che nel contesto del QdL hanno un loro senso preciso, corre la stessa differenza che c’è tra un ritratto di Velasquez e una fotografia. Chiaro dunque che se arriva una poesia di Carla Fracci dedicata alla Scala, quella la si lascia pubblicare al Corriere della Sera: a ciascuno il suo, a ciascuno la “testimonianza” che merita.

«Quotidiano dei Lavoratori», 29 gennaio 1978

INTERVISTE

GRASSO

La poesia italiana oggi: intervista a Elio Grasso
ELIO GRASSO, POETA

 

 

 

Elio Grasso è nato a Genova nel 1951. Poeta, critico, ha pubblicato molte raccolte di poesia, tra cui “Teoria del volo” (Campanotto, 1981), “L’angelo delle distanze” (Edizioni del laboratorio, 1990), “La soglia a te nota” (Book, 1997), “Tre capitoli di fedeltà” (Campanotto, 2004), “Varco di respiro” (Campanotto, 2015). Del 1988 la silloge “Il naturale senso delle cose” (nell’antologia di Vanni Scheiwiller “All’insegna del pesce d’oro”, 1989, Premio Montale per l’inedito).
Ha tradotto T.S. Eliot, una scelta dei Sonetti di W. Shakespeare, 18 poesie di E. Carnevali. Ha curato un’antologia dallo “Zibaldone di pensieri” di Giacomo Leopardi (“Un solido nulla”, Pirella, 1992). Per Effigie ha pubblicato nel 2015 il romanzo “Il cibo dei venti”.
Scrive soprattutto per le riviste Steve, Poesia, Italian Poetry Review, Gradiva. È stato tradotto in inglese, in francese, in rumeno.

  • Da quale realtà familiare e ambientale proviene, e in che modo tale realtà ha influenzato le sue scelte culturali? La tradizione letteraria ligure ha influenzato la sua scrittura?

Figlio di un operaio, gruista alle acciaierie Italsider di Genova Cornigliano, ho sentito la spinta industriale e meccanica degli anni Sessanta. A Genova gli altiforni, i fumi e le colate di ghisa fusa, i cantieri navali con le grandi navi transoceaniche. Tutto questo, in mezzo ai libri di Sbarbaro, Barile e Montale, e alla miriade di romanzi di fantascienza accumulati nella stanza da mio padre, i classici di quegli anni: Asimov, Clarke, Bradbury, Van Vogt, Sturgeon. Allora credevo che nel 2000 le macchine avrebbero seguito piste aeree fra torri altissime, e che centinaia di astronavi sarebbero partite in rotta verso le colonie marziane. Più tardi avrei incontrato le grandi presenze straniere che hanno attraversato le strade liguri o fatto scalo nelle stazioni ferroviarie genovesi: Rimbaud, Nietzsche, Dickens, Valery, Shelley, Byron, Pound, Laughlin, Hemingway.

  • Attraverso quali percorsi di studio e di lettura si è avvicinato alla poesia, e quali sono i poeti classici e contemporanei a cui ritiene di essere più debitore?

Devo tutto l’amore per la poesia, le prime scoperte e innamoramenti, al mio professore di letteratura delle medie, Antonio Mancuso. Poi certo vennero Leopardi, Campana, Montale, Omero, Shakespeare, Rimbaud, la letteratura americana soprattutto in prosa, e Fenoglio, Vittorini e Calvino.

  • Quali sono le sue pubblicazioni più recenti? Verso quale direzione si sta dirigendo la sua ricerca creativa?

     I libri recenti sono Varco di respiro”, pubblicato da Campanotto, “E giorno si ostina”, uscito da Puntoacapo, e il romanzo breve “Il cibo dei venti pubblicato da Effigie. Non so se c’è un’unica direzione: dopo l’attraversamento dell’avanguardia novecentesca la mia poesia non è stata più la stessa. Ci sono stati incontri fondamentali, di diversissima origine: Adriano Spatola, Franco Beltrametti, Carlo Alberto Sitta, Alberto Cappi, Milo De Angelis, Giovanna Sicari, Nanni Cagnone. E l’opera di Edoardo Cacciatore.

  • Che opinione nutre della produzione poetica contemporanea nel nostro paese? Quali sono i nomi che considera più rilevanti, e come pensa si possa aiutare maggiormente a diffondere l’interesse per la poesia?

Il panorama della poesia italiana oggi è devastato dalla presenza in rete di una miriade di cosiddetti “sensibili” che nulla hanno a che fare con la vera poesia di ricerca linguistica e morale. E soprattutto dimentichi della memoria Novecentesca. Mi piace fare i nomi (basandomi sui libri che fino ad ora hanno pubblicato) dei pochi che reggono una degna attualità della poesia italiana: Fosca Massucco, Francesca Serragnoli, Paola Ballerini, Corrado Benigni, Mario De Santis, Raffaella D’Elia, Maddalena Bertolini, Sarah Tardino… Senza dimenticare alcuni poeti che attraversano attivamente la scena da più tempo: Anna Ruchat, Gabriela Fantato, Stefano Massari, Bianca Tarozzi, Alessandra Paganardi, Luigia Sorrentino, Lorenzo Chiuchiù, Daniele Mencarelli, Cristina Alziati. L’interesse per la poesia è qualcosa di astratto, verso un “poetico” che racchiude tutto dentro un mollusco informe. Alle presentazioni, regione del narcisismo spinto abitata da uomini in cerca di donne e donne in cerca di uomini, il passante casuale si aspetta soltanto il “personaggio”, credendo di assistere a un “reality” televisivo. Per questo di fronte al libro, alla raccolta di versi, il pubblico si arrende e va altrove.
Il pubblico reale della poesia dovrebbe essere almeno quello dei poeti, ma questi non acquistano libri. Si aspettano di averli in regalo. O li rubano. Io stesso mi comporto così.

  • Nello scrivere versi, crede incidano di più le esperienze esistenziali, con i loro contraccolpi emotivi, o invece la riflessione teorica, l’ideologia e il lavoro sui testi?

Posso dire della mia esperienza: la prima traccia è sempre esistenziale, carica di oggetti e visioni filmiche. Subito dopo entrano in campo le resistenze linguistiche, i verdetti personali su quanto scritto. Che quasi mai sono generosi. Pur avendo rimosso, nel corso dei decenni, gran parte di prove, riscritture ed eccessi, ho pur sempre pubblicato troppo.

 

© Riproduzione riservata    www.sololibri.net/poesia-italiana-intervista-Elio-Grasso.html

21 settembre 2016

INTERVISTE

GUARINONI

Intervista ad Anastasia Guarinoni: bibliotecaria, organizzatrice di eventi culturali, animatrice radiofonica
ANASTASIA GUARINONI: BIBLIOTECARIA,         
ANIMATRICE RADIOFONICA, ORGANIZZATRICE DI EVENTI CULTURALI

 

  • Da quanti anni fa la bibliotecaria, inserita in quale realtà e dopo aver seguito quale percorso di studi e professionale?

L’amore per la biblioteca, anche come spazio fisico, è nato quando ero bambina, negli anni ’70: la frequentavo per i corsi di lingua, i cineforum e la lettura di quotidiani e riviste; i libri a disposizione lì erano pochi e per nulla interessanti, ma i regali dei familiari e gli scambi con gli amici colmavano la carenza. Crescendo sono rimasta legata all’ambiente e durante l’università ho volontariamente regalato alla piccola biblioteca del mio paese molto del mio tempo libero. Dopo la laurea in Economia, messa subito nel cassetto, e molti lavori precari, decisi, a più di quarant’anni, di frequentare il corso regionale per bibliotecari. Da circa dieci anni lavoro nella biblioteca di Provaglio d’Iseo (BS), con un contratto a tempo indeterminato stipulato con una cooperativa che gestisce servizi di biblioteca.

  • Come riuscire a far leggere di più le persone e in particolare i giovani? Verso che tipo di letture si orienta il pubblico della sua biblioteca?

Si impara a leggere da piccoli, ma la passione è altra cosa. Oggi molti sono gli stimoli, molta l’attenzione posta ai bambini e molti i libri per loro (ho ben due stanze stracolme di libri per l’infanzia), ma rimane nel vago come e perché una persona legga appassionatamente e un’altra no. La prima regola, per chi svolge la mia professione, è dedicare molto tempo alla “promozione alla lettura”; si incontrano intere classi a scuola e nella biblioteca stessa, si propongono letture animate, giochi con i libri, gare di lettura, gruppi di lettura anche per i più giovani. Sono tante le attività con i più piccoli, nella speranza, ma senza la certezza, che qualche cosa resti. E qualcosa resta. La narrativa di genere la fa da padrona: gialli, thriller, romanzi rosa e d’evasione, le saghe fantasy, letture per distrarsi e “non pensare”. Poi la televisione fa impennare i prestiti dei titoli che propone nelle sue trasmissioni, e anche i giornalisti che scrivono di attualità (i cosiddetti instant book) sono ben piazzati. Io cerco di stare attenta alle richieste dei lettori, li accontento, li sostengo ma… non riterrei di fare un buon lavoro se non ci mettessi del mio. Per cercare di caratterizzare e variare la collezione libraria pongo una cura particolare nell’acquisto di libri editi da piccole case editrici che ritengo di qualità, e a questi volumi affianco le novità di grido. Nessun sentimentalismo in ciò, non vedo la professione di bibliotecario come una missione: semplicemente cerco di dare un tocco personale al mio fare.

  • Da qualche anno sta organizzando sul lago d’Iseo (BS) un festival di poesia. Ci può parlare delle difficoltà che ha incontrato nella realizzazione di questa iniziativa, e dei risultati ottenuti?

La poesia me la porto in mano da anni come una valigia, alcune volte è pesante altre leggera, ma mi ha accompagnata in ogni momento della vita. Da tempo sentivo il bisogno di ripagarla, di inventare qualcosa che ne celebrasse la bellezza, anzi la raddoppiasse. Per esempio una festa con i poeti mentre si passeggia nel bosco, si naviga sul lago o si ammira un fiore, intrecciando paesaggio interiore e paesaggio esterno. Ecco nato allora InCerti Luoghi, Festival di poesia del paesaggio, calato in un delizioso borgo lacustre, baricentro di un ampio territorio della provincia bresciana che abbraccia la Franciacorta e la Vallecamonica. Il lago, il parco, i sentieri, le chiesette, la darsena, le vie e le piazze sono i nostri fondali, le nostre casse di risonanza per la poesia. A luglio è terminata la seconda edizione ma già preparo la terza. Un compito, per me, di grande piacere e soddisfazione, di stimolo propositivo, di sforzo immaginativo, di tenacia garbata. La fiducia di persone ed enti (soprattutto privati, ma anche di qualche ente pubblico) mi fa piacere, ma quello che mi sostiene di più è il riscontro di chi segue il festival e mi sprona a riproporlo l’anno dopo rinnovato nel contenuto ma non nella formula: poesia e paesaggio vanno bene a braccetto.

  • Ha inoltre ideato una trasmissione radiofonica per Radio Onda d’Urto, in cui propone agli ascoltatori interviste con diversi poeti. Sono incontri che raggiungono la sensibilità del pubblico e arricchiscono la sua?

La rubrica che conduco per gli ascoltatori di Radio Onda d’Urto, costola bresciana di Radio Popolare, si intitola Naufraghi e l’idea del titolo viene da: «…e il naufragar m’è dolce in questo mare». Mi pareva che questo verso di Leopardi fosse familiare anche a chi non “mastichi” poesia: l’immagine di un gruppo di naviganti (gli ascoltatori della puntata) che nel largo e burrascoso mare della vita vedono la loro salvezza nella terra (la poesia), mi è parsa azzeccata. Tra poco, dopo la pausa dell’estate, riprenderò la rubrica, che consiste nell’intervistare in diretta telefonica poeti contemporanei italiani: fino a giugno sono stati poeti che conoscevo personalmente, ma ora ho preparato una scaletta di autori che conosco solo attraverso la loro poesia. Quello che propongo non vuole essere una lettura dotta o esegetica dei testi (non ho strumenti e competenze adeguate), si tratta semplicemente di ascoltare i poeti che leggono i loro versi, di invitarli a parlare per conoscerli un po’ più da vicino. I poeti come amici e la poesia come lettura di tutti i giorni. Giocando con un antico proverbio si potrebbe anche intitolare: una poesia al giorno toglie il medico di torno.

  • Quali sono i poeti che ama più leggere? C’è un verso di un poeta italiano che ricorre più spesso nella sua memoria?

…portami il girasole impazzito di luce.

E’ un verso di Montale che mi fa rabbrividire, che mi inebria. Ma amo anche tutto quello che è russo, slavo, posto ad est, e Anna Achmatova è per me una musa.

 

© Riproduzione riservata     www.sololibri.net/Intervista-ad-AnastasiaGuarinoni.html    17 settembre 2015

INTERVISTE

HAJDARI

Intervista a Gëzim Hajdari: la poesia, l’impegno, l’esilio

Intervista a Gëzim Hajdari: la poesia, l'impegno, l'esilio

Gëzim Hajdari è nato nel 1957 in Albania da una famiglia di ex proprietari terrieri i cui beni sono stati confiscati durante la dittatura comunista di Enver Hoxha. Nel corso della sua intensa attività di giornalista ed esponente politico dell’opposizione, ha denunciato pubblicamente i crimini della vecchia nomenclatura e dei regimi post-comunisti albanesi. Dal 1992 è esule in Italia. In Albania ha svolto vari mestieri (operaio, magazziniere, ragioniere, militare, insegnante di letteratura), mentre in Italia ha lavorato come contadino, zappatore, manovale, aiuto tipografo.
Bilingue, Hajdari scrive e traduce in albanese e in italiano, ha pubblicato numerose raccolte di poesia, libri di viaggio e saggi, vincendo prestigiosi premi. Con l’editore romano Ensemble, presso cui cura la collana di poesia Erranze, sono usciti tre libri di versi (Nûr: eresia e besaDelta del tuo fiume e Cresce dentro di me un uomo straniero, appena edito), testimonianza della sua realtà esistenziale di esule e rifugiato, sradicato non solo nel vissuto personale, ma anche intellettualmente.

  • Puoi raccontarci da quale ambiente familiare provieni, che studi hai fatto e attraverso quali percorsi sei arrivato a interessarti di poesia?

Sono nato e cresciuto in un ambiente familiare in cui si armonizzano gli spiriti di due grandi tradizioni culturali, quella epica e quella mistica dei bektashi. I miei antenati appartengono ai rapsodi dell’antica stirpe malësor (montanara) delle Bjeshkëve të Nëmuna (Montagne Maledette) delle Alpi, nel nord del paese, dove ha regnato per cinquecento anni il Kanùn, (Codice Giuridico Orale Albanese) e la besa (la parola data, la promessa presso gli albanesi). Il mio nonno paterno era il rappresentante dei bektashi nella provincia di Darsia e del teqé (piccolo tempio). Bektashi è una confaternità mistica che fa capo all’ordine dei dervisci (darwish) di Jalāl ad-Dīn Rūmī: un ponte di dialogo tra l’Islam e Cristianesimo. Mia nonna paterna era una guaritrice di morsi di serpenti nel villaggio, mentre la cugina di mio padre, Zadè, che abitava vicino a casa nostra, era una sciamana, diceva che comunicava con kecka (belle spose danzatrici che apparivano di notte alla riva dei torrenti) e gli xhin (djinn: anime malvagie che escono di notte e hanno una potenza soprannaturale sugli uomini e sulle cose). Zadé annientava le fatture che gli xhin facevano ai contadini, facendo una controfattura.
Nella nostra famiglia si festeggiano sia le feste islamiche che quelle cristiane.
Mio padre conosceva a memoria le leggi del Kanun, i versi dell’epica leggendaria albanese e i versi mistici di Khayyam e Saadi di Shiraz. Sono stati proprio l’epica albanese e la mistica araba che hanno plasmato il mio essere e la mia identità di uomo fin da bambino. Ogni sera, prima di dormire, io dovevo recitare cento versi a memoria davanti a mio padre.
Questo patrimonio culturale inestimabile veniva tramandato di generazione in generazione e di padre in figlio nella nostra stirpe montanara.
Nel villaggio natale, Hajdaraj (Lushnjë), ho terminato le elementari, mentre ho frequentato le medie, il ginnasio e l’istituto superiore per ragionieri nella città di Lushnjë.
Ho studiato Lettere Albanesi all’Università “A. Xhuvani” di Elbasan e Lettere Moderne a La Sapienza di Roma. Senza aver avuto mai avuto una borsa di studio e senza seguire mai una lezione universitaria: ho dovuto lavorare come operaio per quasi quindici anni per potermi mantenere. Durante la sciagura comunista, mio nonno paterno venne dichiarato kulak e mio padre (membro della Resistenza durante la Seconda guerra mondiale), che lavorava come funzionario nell’ufficio del catasto per conto del Ministero dell’Agricoltura, fu licenziato, e per il resto della vita ha lavorato nella cooperativa agricola del regime di Enver Hoxha. Da quando confiscarono i nostri beni di famiglia, la povertà non ci si è mai tolta di dosso. Quando morì mio padre, mi ha lasciato in eredità solo una penna di sambuco con la quale aveva scritto il diario della sua vita durante gli anni di terrore, quando tornava dalla campagna come pastore di buoi, distrutta poi da mia madre Nur per paura che fosse sequestrata dal Sigurimi.
Mio padre Riza era un uomo colto, istruito e molto severo. Era un grande lettore dei classici russi, inglesi e francesi. Ogni sera, dopo cena, raccontava a noi cinque bambini seduti intorno al focolaio le saghe che aveva letto durante le pause dei lavori in campagna. Mentre mia madre è una donna semplice e generosa come la madre terra. Lavorava scalza nei campi, inverno ed estate per un pezzo di pane. La sera, stanca e sfinita, mi pregava di toglierle le spine nere con l’ago dai piedi insanguinati. Avevo otto anni. Mi alzavo di buonora per portare la piccola mandria di capre al pascolo, poi andavo alla scuola elementare del villaggio. Quando frequentavo le medie e il Liceo vendevo il latte delle mie capre nei suoi quartieri, prima di andare a scuola. Tornavo nel villaggio facendo due ore a piedi, nei pomeriggi andavo nei campi a lavorare per comprare il pane quotidiano, e i libri per studiare. Erano gli anni del terrore di Stato. Condanne, fucilazioni, lavori forzati in nome della lotta di classe. Nella città di Lushnje, all’età di dodici anni, ho assistito per la prima volta all’arresto di un “nemico del popolo” nel boulevard da parte di Sigurimi (polizia segreta del regime) e l’impiccagione di un giovane “traditore” della patria.
Davanti la mia scuola passavano le camionette della polizia cariche di deportati, nella città di Lushnje c’erano undici campi di internamento. Il destino mi ha reso uomo in un età molto precoce.
È stata proprio la durezza della vita che ha segnato il mio destino d’uomo e che mi ha spinto a scrivere la prima poesia. Avevo undici anni.

  • Quali sono i poeti e i narratori che più hanno influenzato la tua scrittura?

Oltre l’epica albanese e i mistici arabi, direi Omero, Dante Alighieri e Virgilio, la poesia classica femminile cinese, Isidore Ducasse, Whitman, Blok, Esenin, Mandelstam, Trakl e Senghor.

  • Che tappe ha avuto e ha tuttora il tuo impegno politico e civile?

Nell’inverno del 1991 sono stato tra i fondatori del Partito Democratico e del Partito Repubblicano della città di Lushnjë, partiti d’opposizione, e sono stato eletto segretario provinciale per i repubblicani nella suddetta città. Ero cofondatore del settimanale di opposizione “Ora e Fjalës”, nel quale ho svolto la funzione di vice direttore. Più tardi, nelle elezioni politiche del 1992, mi presentai come candidato al parlamento nelle liste del PRA, ma non risultai eletto. Nel corso della mia intensa attività di esponente politico e di giornalista d’opposizione in Albania, ho denunciato pubblicamente e ripetutamente i crimini dell’ ex-regime di Enver Hoxha, nonché la corruzione e gli affari sporchi tra mafia e i politici dei regimi corrotti post-comunisti di Tirana. Anche per queste ragioni, a seguito di ripetute minacce di morte, sono stato costretto, nell’aprile del 1992, a fuggire dal mio paese. Durante il mio esilio italiano sono stato presente politicamente nella vita quotidiana dell’Albania e in quella italiana tramite le mie opere, Poema dell’esilio, la prima edizione nel 2005, e la seconda edizione ampliata nel 2007, edita con Fara Editore, nonché Gjama, Genocidio della poesia albanese, 1945 – 1990, “Mësonjëtorja” (Tirana 2010).
Senza dimenticare le mie interviste e le mie conferenze impegnate in Italia e all’estero. Dal 2001 al 2005 ho attraversato Tanzania, Mali, Uganda, Etiopia, Ruanda, il sud del Sudan, Filippine, insieme al fotoreporter Piero Pomponi (World Focus), visitando campi profughi, zone di guerre dimenticate, malati di ebola, di AIDS, di malaria. Ne testimoniano i miei libri, San Pedro Cutud. Viaggio nell’inferno del tropico (Fara 2004) e Muzungu. Diario in nero (Besa 2005). La mia casa a Frosinone per diversi anni ha ospitato missionari africani dell’Uganda e Ruanda, che venivano in Italia per raccogliere medicine per i malati dei loro dispensari nei loro paesi.

  • Credi che la poesia possa avere ancora un ruolo nella trasformazione democratica della società?

La vera poesia, che viene dal “basso”, dalla vita, da un percorso umano e interiore intenso e profondo, caratterizzato dall’onestà intellettuale di fronte alla pagina bianca, illumina il lettore con l’immenso, ispira uomini e donne con il senso della bellezza e della virtù, che potrebbero un domani svolgere un ruolo nella trasformazione più che democratica, direi spirituale e visionaria della società, senza le quali non si ci può essere una trasformazione democratica. Questo tipo di poesia profetica sopravvive a se stessa e ai secoli.
Invece la poesia sterile, che nasce dalle serre di scrittura, dalle cattedre, dalle accademie e dalle stanze dell’editing, sperpera il denaro pubblico, avvelena la mente dei lettori, uccide la vera arte, diventando così complice della politica nel degrado sociale, spirituale e civile della società. Questo tipo di poesia inesistente viene imposta ai lettori dalla critica, dai media e dall’industria culturale. I nostri antenati si cibavano di grandi valori culturali e pretendevano molto dai loro artisti.

  • Quali sono state le maggiori soddisfazioni e delusioni che hai vissuto in Italia? Se potessi tornare indietro, emigreresti ancora nel nostro paese, e cosa rimpiangi di più dell’Albania?

Io penso che ogni poeta contemporaneo, se vuole conoscere il proprio talento per la poesia e la propria capacità intellettuale, dovrebbe fare un’esperienza italiana e formarsi in Italia, paese che non ha uguali nel mondo e, al tempo stesso, di strani paradossi. Da un lato c’è Dante Alighieri, il sommo Poeta che incombe e schiaccia tutti coloro che osano misurarsi con lui e la sua Divina Commedia. Dall’altro lato c’è l’establishment della poesia ufficiale, chiusa, quasi una setta, che conserva con gelosia e cinismo la purezza e il primato della poesia italiana, scambiando favori editoriali e premi letterari. Il vero “razzismo” e si può dire, non è nei confronti dei migranti, quest’ultimi sono trattati bene, anzi anche troppo bene. Il vero “razzismo” in Italia è verso i veri poeti esuli. Finché sei un migrante semplice e timoroso, le istituzioni mostrano un senso di pietà, ma nel momento in cui diventi un poeta e intellettuale “eretico”, allora la politica e l’establishment non ti perdonano né il successo, né l’”eresia’”.
Fare il poeta in Italia è una grande sfida più che in qualsiasi altro paese europeo. Un poeta straniero che riesce a sopravvivere e a creare grandi valori letterari in Italia è un eroe e, al tempo stesso, un martire. I miei amici poeti-esuli in Italia, Heleno Oliveira, Thea Laitef, Hasan Atiya Al Nassar, Egidio Molinas Leiva, che hanno creato grandi valori letterari, non sono mai stati accolti dai poeti della “lingua alta” del bel paese. Se ne sono andati giovani, in povertà, solitudine e disperazione. Thea Laitef rimase per mesi all’obitorio di Roma perché nessuno poteva pagare le spese funebri, Hasan Atiya Al Nassar morì in un ospizio, Egidio Molinas Leiva lo gettarono in una fossa comune al Verano. Ali Mumin Ahad fece in tempo a fuggire in Australia.
Io resisto ancora tra le colline della Ciociaria e le brughiere britanniche.
Dell’Albania rimpiango il fatto di non essere mai invitato a leggere o a presentare la mia opera, nell’arco di sessantatré anni. Anzi il mio contributo letterario viene ignorato volutamente dalla cultura di potere di Tirana.


© Riproduzione riservata      30 giugno 2020    https://www.sololibri.net/Intervista-Gezim-Hajdari-poesia-impegno-esilio. html

 

INTERVISTE

IL PICKWICK

Intervista alla redazione del magazine

Il Pickwick


Intervista alla redazione del magazine Il Pickwick
  • Quando è nato il vostro blog e con quali finalità? Per quale motivo l’avete chiamato così?

Il Pickwick nasce con i suoi primi articoli nel novembre del 2012, come testata giornalistica con tutti i crismi: sebbene la registrazione ufficiale al Tribunale di Napoli venga poi ratificata solo l’8 aprile successivo. Siamo nati per dar seguito a un’esperienza precedente, dalla quale alcuni di noi provenivano e che era un piccolo giornale online che si occupava quasi esclusivamente di teatro. Quando quell’esperienza si è conclusa – inaspettatamente – ci siamo ritrovati attorno al tavolino di un bar a decidere di imbarcarci in quest’impresa, spinti dalla voglia di continuare a scrivere di teatro, anche se sin da subito abbiamo deciso di provare ad allargare il nostro orizzonte alle altre forme di espressione culturale e artistica.
Il nome della testata è scaturito al culmine di varie riflessioni e proposte, in cui si cercava qualcosa che fosse sufficientemente indicativo delle nostre aspirazioni e finalità e Dickens, con la sua combriccola di curiosi esploratori di storie che faceva capo a Mr. Samuel, ha rappresentato un illuminante viatico; l’articolo determinativo (in italiano) davanti al nome ci è sembrato opportuno per dare un tratto distintivo, oltre che per scongiurare equivoci e confusioni con siti omonimi.

  • Di quante persone si compone la vostra redazione e su quali altre collaborazioni potete contare?

La nostra è una redazione variabile, alla quale hanno collaborato con tempistiche differenti e irregolari oltre centocinquanta firme. Attualmente, quelli che scrivono con buona o discreta assiduità sono una trentina, ma tra questi, il novero dei più attivi si può circoscrivere a una quindicina. Qualcuno ci ha lasciato, qualcun altro ha scritto uno o due articoli e poi s’è dileguato, qualcun altro ancora è arrivato appena ieri o arriverà domani.
Ci capita poi di collaborare con spazi teatrali, festival, istituzioni culturali e università conducendo incontri con gli artisti, col pubblico; talvolta è capitato che ci sia stato affidata la conduzione di qualche laboratorio, in cui abbiamo provato a ragionare coi partecipanti sulla relazione fra eventi e contesti, tra opera e sua percezione critica.

  • Come è articolato il blog e qual è la sezione più seguita dai vostri lettori?

Il giornale è strutturato per sezioni; quella trainante è senza dubbio il teatro, che seguiamo regolarmente e che ci ha consentito col tempo di avere un respiro sempre più nazionale. Le altre sezioni, che pure riscuotono un ottimo seguito, sono dedicate alla letteratura, all’arte, al cinema e alla musica. Abbiamo poi uno spazio aperto alla pubblicazione di narrazioni e versi inediti, che solitamente aggiorniamo con cadenza domenicale; in più, un’ulteriore sezione denominata “Espressioni” ospita di tanto in tanto tutta quella miscellanea non compresa nelle suddette sezioni (interviste, illustrazioni, articoli di costume o di qualunque altro argomento riteniamo possa essere interessante).

  • Che genere di pubblico aspirate a raggiungere?

Aspiriamo ad avere dei lettori. E abbiamo scoperto che esistono. Ci piace pensare che chi legge Il Pickwick lo faccia perché animato dalla curiosità e dalla possibilità di imbattersi in un punto di vista il più possibile originale e strutturato. Non aspiriamo a un pubblico in particolare – e con questo voglio dire che non scriviamo per i soli addetti ai lavori – ma cerchiamo di offrire un lavoro onesto e qualitativamente valido, a cui possa accedere un pubblico vario e stratificato. Non ambiamo a rinchiuderci nella riserva indiana di una élite culturale ma ad allargare il più possibile la fruibilità dei nostri contenuti, senza abbassarne il livello qualitativo.

  • La vostra sede è Napoli: che rilevanza ha la vostra attività nello spazio culturale della città?

La nostra rilevanza nel contesto cittadino è cresciuta progressivamente, in maniera anche veloce, allargandosi anche oltre i confini regionali. Il nostro lavoro viene riconosciuto e apprezzato, ne abbiamo continui riscontri. In città ci siamo guadagnati – crediamo di poter dire senza falsa modestia – una credibilità e un apprezzamento dovuti al tipo di attività che svolgiamo, alla scrupolosità che ci mettiamo, al profilo etico che ci siamo imposti.

  • L’argomento su cui focalizzate maggiormente la vostra attenzione è il teatro. Quali sono le maggiori problematiche che deve affrontare oggi la critica teatrale?

È una domanda che apre un discorso notevolmente complesso, su cui di tanto in tanto si riapre un dibattito inconcluso. A nostro avviso, i problemi fondamentali che vive attualmente la critica teatrale possono ricondursi a due fattori precipui: la difficoltà di essere un lavoro a tutti gli effetti e la perdita di credibilità di un mestiere che, non di rado, è svolto con opacità etiche e deontologiche; due aspetti che finiscono per svilirne la dignità professionale. Oggi “fare il critico” non è una professione, noi stessi che lo facciamo con l’abnegazione e la cura di un vero e proprio lavoro non riusciamo a trarne sostentamento diretto. La critica teatrale sta progressivamente scomparendo dalle pagine dei giornali cartacei e si sta trasformando in un mestiere che non c’è, una sorta di volontariato culturale per chi ancora si ostina a svolgerlo. A corollario di questo stato di fatto succede poi che, fra coloro che si occupano di critica, si iscriva anche chi nell’ambito del teatro svolge altre professioni, praticando situazioni di contiguità eticamente conflittuali e compromissorie con lo svolgimento del lavoro critico.

 

© Riproduzione riservata

https://www.sololibri.net/Intervista-redazione-il-pickwick.html   28 agosto 2019